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Pietre di Fuoco - noir napoletano di Giacomo Ricci - Neftasia editore 2011

lunedì 13 giugno 2011

Pietre di Fuoco: i materiali- l'aula di Fisica della Federico II




di Giacomo Ricci





Voglio iniziare  raccontandovi una storia, ma non d’invenzione. Una storia vera e, credo,  leggera. Tanti anni fa c’era uno studente del primo anno della Facoltà di Ingegneria di Napoli, testimone oculare del breve racconto che mi accingo a fare. Non so bene come siano, oggi,  organizzati gli studi di ingegneria, dopo gli sconquassi introdotti con le lauree triennali, il tre più due, ecc. Al tempo della nostra storia gli studi di Ingegneria erano strutturati in un corso di laurea che si potrebbe definire, con termini odierni, un “due più tre”, un biennio (questo sì, a tutti gli effetti  generalista, comune a tutti i corsi di laurea  di ingegneria) e un triennio specializzato che definiva e finiva il percorso di studi. Così diventavi ingegnere chimico, meccanico, edile, elettrotecnico, “stradino”  e così via. Il nostro allievo aveva scelto di seguire il corso di ingegneria elettronica e, come tutti gli altri allievi ingegneri al primo anno, divideva con  gli studenti della  Facoltà di  Scienze, i corsi di matematica, fisica e un esame  di chimica generale. 

Ma entriamo nel vivo della storia. 

Dovete immaginarvi l’aula di fisica della Federico II di Napoli. 

Il progetto del corpo centrale dell’Università,  che si trova tra il corso Umberto e via Mezzocannone,  lo si deve all’ingegnere Guglielmo  Melisurgo che lo fece insieme a Pierpaolo Quaglia. Grande personaggio Melisurgo, ingegnere del Comune di Napoli, famoso soprattutto per essere stato il primo “intellettuale” a immergersi, insieme ai fognaroli e i “pozzari”, nel sottosuolo di Napoli e tracciarne una planimetria dettagliatissima, che misteriosamente non è stata più trovata negli archivi storici dell’ufficio comunale
L’ingegnere,  tra l’altro,  fu anche l’autore del  progetto della facciata neoclassica e del corpo principale dell’Università di Napoli. Appena si entra da corso Umberto,   salita la breve gradinata sulla strada, dopo aver attraversato un atrio di grandi proporzioni nel quale confluiscono la grande scala che porta al rettorato e i due ampi corridoi a destra e sinistra che ospitano la facoltà di giurisprudenza e le aule,  passata la  gigantesca statua di Federico II che se ne sta sulla parete opposta all’ingresso,  si giunge nel grande cortile interno.  Questo è diviso  in due ampie corti,  specularmente uguali, da un imponente scalone centrale scoperto che conduce al primo piano, sul fondo della corte,  dove c’è una statua di Minerva, dea della saggezza e della sapienza. Da qui il nome di “scalone della Minerva”.  Ai due lati dello scalone due volumi simmetrici,  a pianta centrale poligonale, alloggiano, l’una dirimpetto all’altra,  due grandi aule a cavea, una di Chimica e l’altra di Fisica. Sono, a mio parere, le aule più significative, imponenti e belle (passatemi, benché desueto,  il termine) di tutto l’ateneo napoletano, anche delle più recenti realizzazioni in località Montesantangelo dedicate proprio alla Facoltà di Scienze e, un po’ più indietro negli anni,  dell’edificio del Politecnico progettato da Luigi Cosenza in piazzale Tecchio. 
Non so spiegarvelo con esattezza, ma l’aria, anzi, l’ “aura” che avvolge le due aule, l’atmosfera che creano con le rifiniture in legno, la loro forma “classica” da teatro greco, le cavee a emiciclo molto ripide con scanni e banchi continui curvi, ne fanno luoghi non solo degni di un’Università, ma elementi in qualche modo archetipici degli studi universitari, quelli che  trasformano  un luogo in  un’Università e non altro e  si legano, nel nostro inconscio, all’idea che sempre ci siamo fatti di un edificio  nel quale s’insegna il sapere. Nello spazio in basso, al posto del coro e della scena del teatro greco c’è  la lunga cattedra che va da un capo all’altro dello spazio disponibile. Le lavagne lungo tutto il muro, i due altissimi finestroni ai lati, la porta dalla quale entra il docente, tutto è pensato per far sì che la lezione sia una vera e propria rappresentazione spettacolare, una celebrazione, semplice e imponente allo stesso tempo,  dell’atto di sapienza, della dotta orazione del professore. 
Un allievo alle prime armi è certamente impressionato da tutto ciò, viene rapito in quest’atmosfera, si sente piccolo  e un po’ intimorito, ha la sensazione di vivere un’esperienza complessa, importante della sua vita. Dimentica di colpo il liceo e la sua aria, per così dire, “familiare”. Si rende conto, all’improvviso, di essere entrato ufficialmente nel mondo  del Sapere. 
Immaginate il nostro studente, seduto con gli altri in attesa della prima lezione di fisica sperimentale. Guarda con occhi straniti gli strumenti che sono disposti in bell’ordine sul lunghissimo piano della cattedra, il tubo sottovuoto dove vedrà per la prima volta, come si trattasse di un incantesimo, correre una piuma e una pallina di piombo alla stessa velocità verso il basso; in quell’aula  assisterà agli esperimenti di ottica, e vivrà la scomposizione di un raggio luminoso nei tanti colori dell’iride mentre passa attraverso un prisma, un cristallo trasparente e sfaccettato. 

Ed ecco il professore. 

E’ entrato, come il luogo richiede, con  gesto  teatrale,  scostando la pesante tenda di velluto che copre l’ingresso, e subito ha alzato lo sguardo in giro alla fila centrale della cavea mentre l’aula esplode per gli applausi. 
E sì. Ai tempi del nostro studente le lezioni si aprivano sempre con un lungo applauso diretto al professore del quale si salutava la fama, il destino, la storia. E lui si aspettava quest’applauso. Lo sosteneva proprio alla maniera di primo attore, capocomico che fa il suo ingresso in scena e parte l’applauso, magari guidato dal capoclac che rompe l’aria con il suo battito di mani deciso, imperioso, diretto soprattutto a convincere gli altri della clac più timidi, tirandosi  appresso   tutto il pubblico.
Poi le sue parole, che a poco a poco prendevano l’aria, leggere piume o farfalle che  salivano, come su un fresco alito di vento,  lungo la grande cavea, passando proprio un po’ al di sopra delle teste degli allievi. Questi, prima un po’ attoniti,  erano, poi, man mano presi dalla dialettica, dalle battute, dai cenni fugaci, dalle rapide incursioni in campi paralleli che lui invadeva con rapidissimi azzardi, sortite repentine e fugaci, appena accennate,  per poi tornare subito in argomento. Sprazzi di mondi, lampi improvvisi che accendevano la fantasia dell’uditorio, che alludevano, con maestria,  ad altro, che facevano intuire, supporre, pensare, suggestionando, suggerendo, aprendo porte su prospettive diverse per poi subito socchiuderne la vista. Metafore subitanee, parole sospese, tratti interrotti, schizzati con impressionante velocità. 
Lui, il professore, mentre parlava teneva la mano nel fianco, la giacca doppiopetto aperta e la camicia sparata di bianco con una cravatta azzurra lucida,  e preso dal discorso, che a poco alla volta l’infervorava, si levava gli occhiali e li passava da una mano all’altra. E  gli occhiali di volta in volta diventavano matita per tracciare immaginari grafici nello spazio o magica bacchetta evocatrice di mondi, sfere, pianeti e forze invisibili. Poi, rigirandosi rapido, s’avviava veloce verso la lavagna e, impadronitosi di un gessetto, tracciava grafici e schemi, disegnando una bottiglia, o una pila o richiamando brevi formule e equazioni. 
Ferrante d'Aragona, così chiamerò il professore,  era molto vanitoso e, diciamolo pure, un po’ supponente. Ma poteva ben permetterselo, sia per la sua tenuta di scena sia perché direttore dell’Istituto di Fisica della Federico II. E  faceva presto a informare, con le lapidarie parole che riporto, l’uditorio che:
«Tre sono i grandi fisici al mondo. Uno è Einstein, l’eccelso.  Il secondo è un italiano,  il grande Enrico Fermi e il terzo non lo nomino ... per modestia». 
A questo punto l’aula, letteralmente, se ne “cadeva” per gli applausi. Uso questa parola ricordando proprio Eduardo che, in Sik Sik l’artefice magico, ripete più volte, all’incredulo Ugo D’Alessio, aspirante “compare”, che  fa eco a pappagallo, poco convinto,  «E a chistu punto se ne care o’ teatro». 
Avrete ormai capito che quell’allievo alle prime armi con gli studi universitari ero io, giovane di diciott’anni. Ho vivissimo il ricordo di quelle lezioni. E ricordo che, a poco alla volta, ci abituavamo all’atmosfera, alle battute di Partelli, alle sue, per così dire, “intemperanze” e le sue - mi perdonerà dall’altro mondo ma lo dico con sincero  affetto e caro ricordo - “smargiassate”, le sue dimostrazioni a “sorpresa” proprio come un prestigiatore che riesce nel suo numero a impressionare l’uditorio. Così  le leggi della fisica scorrevano sotto i nostri occhi, illustrate dai suoi  esperimenti che avevano del mirabolante e, quasi sempre,  riuscivano perfettamente. Quasi sempre perché qualche volta il destino dispettoso comunque ci metteva la sua e qualcosa non andava proprio per il verso giusto e l’esperienza, come si dice a Napoli, faceva “fetecchia”. In questi casi Ferrante d'Aragona non si perdeva d’animo ma riprendeva di buona lena l’esperienza, non senza, però, aver lanciato un’occhiataccia a Mario, il suo tecnico assistente. Era senza dubbio sua la colpa che le cose non fossero andate per il verso giusto. Almeno così noi capivamo. 
La faccia di Mario era un programma, imperturbabile come una sfinge dai grandi baffoni neri, alla Groucho Marx, al quale sorprendentemente assomigliava, che ne nascondevano il labbro superiore ma, mentre io sempre rintanato nelle ultime file di posti, in alto, quasi vicino all’uscita,  non riuscivo a vederlo per la distanza, quelli più “secchioni”  sempre in prima fila,  giuravano di aver visto passare   nei suoi occhi un bagliore tra lo sfastidio e l’odio, come se dicesse «Ma tu vire a chisto. Ah,  Maronna mia,  ma tu vire, pe’ campa’, che pacienza ca nce vo’...».

Venne poi, come ho già ricordato, la stagione degli esperimenti di ottica che, come tutti sanno, per essere visibili, si devono fare al buio. Venne il turno della polarizzazione della luce, della scomposizione, della rifrazione. Navigavamo da qualche lezione, per così dire, al buio, illuminati da guizzi  e bagliori  improvvisi che mostravano come la luce seguisse bizzarrie che non avremmo mai sospettato. Tra applausi a scena aperta o i gridolini meravigliati delle giovani colleghe di scienze, o gli “oohhh!” di prolungata meraviglia degli allievi dell’accademia militare di Pozzuoli, cadetti-studenti in ingegneria aeronautica, Ferrante e Mario-Groucho, nel suo ineffabile camice nero,  ci conducevano per mano in quel giro illusionistico sull’ottica e le sue mirabolanti acrobazie da laboratorio.  
Fu durante  una di queste dimostrazioni che accadde il fatto. 
S’era spenta la luce centrale dell’aula e quelle sui due lati, tirate le pesanti tende dei due altissimi finestroni e ottenuto il buio pesto consueto necessario all’esperimento. Mario, sapientemente aveva messo tutto in ordine, sotto lo sguardo vigile e severo di Partelli, un prisma, un fascio di luce polarizzata che si sarebbe dovuto accendere nel buio al momento opportuno, qualche lente amplificatrice, opportunamente inclinata, distribuita  lungo il percorso del raggio luminoso. Nel silenzio che precedeva l’esperimento, nel buio della sala, tutti con il fiato sospeso per la suspence ...
Accade all’improvviso.  
L’irreparabile, l’incredibile: un suono irriverente, scostumato, arrogante, sfottitorio, anarchico, destabilizzante, terroristico, assurdo, preceduto da un:
«Ferrante , Ferrante d'Aragona, professore, grande fisicoooo ....». 
Il pernacchio più sguaiato, scioccante, voluminoso, potente che  abbia mai sentita in vita mia. L’ignoto sfottitore, inghiottito nel buio dell’aula, zeppa di studenti aggrappati a tutti i posti disponibili e in piedi sul fondo in alto,   da vero maestro aveva interpretato con magistero lo sberleffo più famoso di Napoli fin dall’antichità proprio  come ce lo racconta e insegna Eduardo nel famoso episodio  de L’oro di Napoli. Chi aveva fatto quel pernacchio, pensai subito, s’era allenato lungamente e duramente, con l’obiettivo di inchiodare il nostro, il suo professore. 
Seguì un attimo glaciale, ammutolito, incredulo. Poi s’accese la luce. Tutti noi , nel buio, eravamo scoppiati a ridere. Ma lo sguardo fisso, allibito, attonito di Ferrante ci gelò il sangue nelle vene. Il poveruomo non riusciva a parlare. S’era fatto paonazzo,  come uno che vede crollare l’Empire State Building o un’improvvisa eruzione del Vesuvio rovinargli addosso tragicamente. Non credeva ai suoi occhi, anzi, alle sue orecchie. Sbiancò e si fece rosso in un attimo. Urlò con quanto fiato aveva in gola:
«Chi mai è stato  questo ... ribaldo!».
Poi, senza pensarci su, era uscito furente dall’aula, sbattendo con violenza la tenda dietro di sé. 
Le ore e i giorni che seguirono furono concitati, frenetici. Gruppi di studenti si recavano in missione diplomatica verso lo studio di Ferrante d'Aragona nell’Istituto di Fisica.  Ci volle il bello e il buono per farsi ricevere. Dopo ore di contrattazione con la segretaria e un avamposto di bidelli e uscieri, si riuscì ad avere udienza presso il prof incazzatissimo. Ci vollero le scuse di tutti noi per convincerlo a fare lezione la volta successiva e  l’assicurazione che l’ignoto delinquente profanatore  sarebbe stato al più presto individuato. Ma, soprattutto, più che l’atto di contrizione di noi studenti, doveva aver agito l’invito del Rettore, prontamente informato del goliardico sgarro, a lasciar correre, di non dare eccessiva importanza alla cosa per non rendersi ridicolo e rendere ridicola, soprattutto, tutta l’Università. 
Vuoi come non vuoi, giungemmo alla lezione successiva. 
Tralascio tutte le premesse. Dico solo che la lezione riprese da dove era stata interrotta. 
Siamo, quindi, ancora una volta un attimo prima che la luce si spenga e l’esperimento parta. Si spegne la luce. Intravediamo a malapena Mario che, nel fioco tremore  di una candelina in un alambicco di lato,  fa gli ultimi preparativi. Ferrante non si vede perché tutto il resto dell’aula è nel buio più fitto. 
Puntuale, come tutti un po’ si aspettavano,  la voce a squarciagola nel buio. 
«Ferrante d'Aragonaaa, Ferrante professore, grande fisicoooo ....». 
E, subito dopo, il  rumore assordante, violento del pernacchio più squillante mai udito. Se possibile mi sembrò più forte della prima.  
L’oscuro attentatore ci aveva provato di nuovo, assolutamente sprezzante delle minacce del professore. 
Stavolta nessuno rise. Giaccio. Un attimo lungo quanto un secolo. Un lampo illuminò il buio. 
Non riuscivo a capire che cosa fosse successo. Mario accese la luce centrale. Ferrante aveva nelle mai una macchina fotografica da cronista con un flash potente. Svitò con lenta cattiveria la lampadina.
Si guardò in giro. Un ghigno maligno gli segnò le labbra sottili. 
«I colpevoli sono qua dentro» disse lentamente, con voce misurata, vendicativa, crudele. «Ci rivedremo agli esami».  Lanciò platealmente sulla cattedra la lampadina bruciata e girò le spalle, abbandonando con sdegno l’aula.  
Sarà come sarà, mentre usciva incazzatissimo partì un applauso da “se ne care o’ teatro” che durò per cinque minuti. Ma Partelli non uscì a ringraziare. 
Il colpevole non fu mai trovato e l’episodio non si ripeté più. Agli esami non vi furono rappresaglie. Anzi Ferrante si mostrò particolarmente disponibile con tutti noi. 
Alcuni dicono che l’irriverente suono non fosse prodotto da un essere umano, ma dallo “spirito” dell’aula che si vendicava perché insofferente di vedere, a ripetizione, sempre le stesse cose. Girarono voci su munacielliBelle Mbriane, fantasmi di studenti morti. L’immaginazione si scatenò. Tanto che se non fossi stato tra i testimoni oculari, anch’io sarei portato a credere che si sia trattato di una delle tante leggende metropolitane che girano per la città. Ma io so, perché c’ero,   che il colpevole ancora se la  ride da qualche parte.
Qualcuno ha pensato che si trattasse di un fenomeno di anticipazione della stagione del ’68 che sarebbe scoppiata di lì a qualche anno. Ma, ovviamente, si tratta di fantasticherie senza alcun reale fondamento. 
A corredo della storia voglio ricordare una mia recentissima delusione. Sono andato, qualche mese fa, a Napoli, all’Università centrale. Avevo con me la mia macchinetta digitale e andavo fotografando, per le ragioni che chiarirò più avanti, una serie di materiali visivi che avevano a che fare con il progetto che voglio qui illustrare. Nei materiali rientravano anche le immagini dell’aula di fisica che ho molto ben chiara nella memoria perché è un luogo che ricorre frequentemente nella mia storia e il mio legame  profondo con l’ateneo napoletano. Ma quale fu il mio dispiacere nel vedere l’aula chiusa agli studenti, trasformata, per così dire, in monumento, perché venuta meno la sua funzione. Così mi disse l’usciere all’ingresso quando chiesi perché la coppia di aule a cavea fosse chiusa al pubblico.
«Da quando la facoltà di Scienze si è trasferita a Montesantangelo»,  mi disse con un sorriso tra il complice e lo sconsolato, «le due aule hanno perduto la loro funzione quotidiana e vengono usate solo su richiesta di alcuni professori e riservate a importanti occasioni  accademiche».
Sì, anche lui, in qualche modo, avvertiva qualcosa di storto in questa decisione. Come se, cancellando una delle funzioni principali del corpo storico dell’Università di Napoli, se  fosse stato amputato, a crudo, un arto,  non si sa bene perché e da chi. 
Come ho detto le due aule sono state trasformate in monumenti, “mummificate” per così dire.  Forse si tratta di riconoscerne il valore storico e la funzione, ma, secondo me e il custode, si trattava anche della loro fine. Riflettendoci, si tratta, comunque, della fine di un modo di fare l’Università che, nel bene e nel male, ha rappresentato un’epoca, un modus vivendi, un sistema di valori. Malinconie di vecchi, taglierà corto qualcuno. Forse ma su questi cambiamenti sono sempre necessarie opportune riflessioni. 
Io sono sempre molto preoccupato quando si verificano mutazioni così radicali. Sono convinto di sapere quello che perdo ma non sono assolutamente certo di quello che avrò e se ciò che avrò sarà meglio di ciò che ho perduto. 
E’ una sensazione generale che non mi abbandona da qualche tempo. Le due aule mummificate sono una sorta di metafora dei cambiamenti radicali delle nostre università pubbliche, la loro definitiva fine. Qualcuno manovra, e nemmeno tanto all’oscuro, perché il mondo accademico antico - ritenuto tout court una zavorra inutile e farraginosa - se ne vada allegramente in frantumi o, peggio, mestamente in soffitta. 
Nel mondo universitario qualsiasi “innovazione” è stata sempre un maleficio, in un vero e proprio accanimento della cattiva sorte (o forse potremmo dire della cattiva volontà), un peggioramento - sempre notevole e in qualche modo devastante - degli antichi equilibri sostituiti da un “nuovo” assolutamente mai all’altezza del mondo al quale si rinunciava. Così è stato nel 1969 con la democratica liberalizzazione degli accessi, così con tutte le leggi successive, così con l’introduzione dei “crediti” che, di fatto, hanno vanificato la valutazione di merito degli studenti, così con le lauree triennali che non servono a nessuno e non hanno mercato, anzi hanno un effetto di drogare e intasare il già collassato mondo del lavoro, e così via. 
Tornando a Ferrante d'Aragona e al suo modo antico di fare lezione, la scenografia, l’applauso, il ruolo teatrale, quasi da avanspettacolo,  del docente, l’apparecchiatura che in qualche modo agiva direttamente e inconsciamente sull’immaginario di ognuno di noi studenti, tutto è stato gettato via. Certo: si dirà che era un impianto retorico illusorio e sostanzialmente sovrabbondante, una superfetazione, una degenerazione della mitologia accademica. Ma un ruolo importante l’aveva. Se non altro quello di mantenere in piedi l’ “aura” della funzione universitaria. 
Ricordo con Ferrante (che come avete capito è un nome inesistente, per una mia volontà di protezione dell’antico professore del quale ho un caro ricordo e affetto sincero) altri professori in grado di fare scena: Roberto Pane, per molti versi Giulio De Luca, Nicola Pagliara e la sua fortissima verve teatrale, istrionica, colta e scenica. E molti  altri ancora. Era un modo di fare università, un linguaggio, un insieme armonioso e architettato di segni fortemente funzionalizzati alla resa proprio dell’ “aura”, alla costruzione mitologica del mondo universitario. Un mondo che io credo avesse un suo profondo significato e un effetto assai positivo su noi studenti. Non fa nulla che di alcuni professori si costruiva il mito. Era proprio il mito, insomma,  oltre la loro capacità, a essere fondamentale nella nostra preparazione scientifica o, meglio, nella stimolazione delle nostre capacità di apprendimento. 

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