pietre

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Pietre di Fuoco - noir napoletano di Giacomo Ricci - Neftasia editore 2011

sabato 6 agosto 2011

Napoli e Parigi

di Michéle Oceane


Ecco , il libro è letto!
La lettura è stata molto interessante.

Non ho l’abitudine di leggere dei gialli, ma devo dire che questa è piacevole; ha captato la mia attenzione fino alla fine.

Quello che mi ha colpito, è la ricchezza dei riferimenti storici. Per il lettore è una fortuna  potersi tuffare nella storia. Scoprire  luoghi,  chiese,  statue,  monumenti, e  aneddoti dei quartieri storici di Napoli. Mentre leggevo, avevo la sensazione di “stare” nel libro fra i personaggi, indagando anch’io il mistero dell’uomo ucciso, “l’acefalo”, respirando, anch’io, l’atmosfera della cappella, incontrando gli abitanti, ascoltando  la loro voce ...

Il libro mi ha riconciliata con Napoli. L’ignoranza spesso fa nascere, dentro  di noi,  idee preconcette che non hanno alcun legame  con la realtà. Perciò, mi sembra che l’insegnamento e gli scambi siano essenziali. Dobbiamo cercare di imparare sempre per conoscere meglio il mondo che ci circonda, senza far prevalere  i pregiudizi che spesso sono falsi. A volte non sono falsi   ma suggeriti  da fatti contingenti, vissuti realmente da una persona in un istante particolare.  Ma per un’altra persona che non ha vissuto quello stesso  momento, a suo parere , la realtà avrà un altro volto!

L’arte è un linguaggio. Chi sa commuoversi di fronte a un’opera d’arte saprà comunicare con un’altra persona, sensibile  all’arte, anche se si tratta di uno straniero,  senza parlare la sua lingua. Dopo l’ammirazione  nasce la felicità di aver visto la “Bellezza”, (in francese  avrei detto “le Beau = il Bello”e non: la bellezza= la beauté) ... Il  “Bello” è un insegnamento per tutti; ci guida verso il vero cammino di vita, forse... L’uomo, la natura, l’Arte: tutto questo è un mondo complesso.
Con l’arte non ci sono più né confini tra gli uomini , né la barriera della lingua.

Invece  vi ringrazio per il vostro aiuto  che mi ha fatto capire tutte le parole del libro. Poco a poco mi sono sentita a mio agio con il vocabolario napoletano,  tradotto da voi, fino a che, a volte, credevo di capire  leggendo direttamente il libro ...
Ancora una cosa il libro mi ha offerto: grazie alla nostra corrispondenza, ora penso di  poter immaginare, comprendere meglio quello che gli italiani provano quando sono obbligati  a parlare una lingua unica, nonostante  esistano, in Italia,  molte lingue locali. Tutte queste lingue hanno la loro ricchezza e quando bisogna abbandonare la propria lingua materna non deve essere facile. Spesso non è possibile tradurre e rendere il senso di una parola esattamente ...

Mi sembra, con  la lingua napoletana, ritrovare un po’ quello che ho vissuto  nella mia vita. Mia madre aveva origine spagnola e mio padre, italiano. A casa nostra  sentivo a volte , in  molte occasioni, delle parole  del  “dialetto” di ciascuno di loro. Ricordo il loro sorriso quando usavano quelle parole e la loro soddisfazione quando erano consapevoli di aver trovato la parola giusta per esprimere un’idea o un sentimento che il vocabolario francese non poteva tradurre.
I miei genitori erano di cultura  mediterranea, i loro genitori li avevano educati in certi modi di  comportamento,  a parlare con il sorriso, a cantare, ridere,  festeggiare malgrado le vicissitudini  della vita; forse ho ritrovato questo nella lettura di Pietre di Fuoco. A Parigi... è diverso. Avevo dimenticato...

Mi è piaciuto molto il libro perché ci ho trovato  ricordi mai vissuti... ricordi di persone mai conosciute... ricordi di una lingua mai imparata...

E’ una lettura che mi è molto piaciuta perchè ho imparato molte cose. Adesso ho  voglia di visitare Napoli con occhi nuovi, ho  voglia di guardare il passato della città e anche i suoi “fantasmi”. Ho  voglia di conoscere meglio il contesto ambientale  e le persone che ci vivono.

Per caso, avevo  scelto di fare una tappa da voi  durante il viaggio, per metà   turistico, e per metà un pellegrinaggio nella terra di mo padre ...

Grazie mille per la vostra gentilezza, per il vostro aiuto.

Grazie mille Giacomo  per il libro. Grazie mille per averlo scritto. Grazie mille per avermi insegnato ad aprire gli occhi e il cuore.

Michèle.           

mercoledì 20 luglio 2011

Ancora su Questi fantasmi

La commedia di Eduardo Questi fantasmi è ampiamente citata all’interno della narrazione di Pietre di Fuoco, come riferimento per la costruzione di alcuni personaggi. Ad esempio  Rafele,  anima “nera” dell’opera defilippiana, fa da matrice, da incunabolo a don Arturo, custode della Pietatella. Ma la commedia di Eduardo serve anche come fonte letteraria di alcuni spunti narrativi importanti tra cui proprio i fantasmi e i palazzi che fanno loro da dimora, nell’immaginario fantastico e metastorico, per così dire, dei Napoletani, del popolo basso in particolare.
Questi fantasmi è, a mio parere, una più belle commedie di Eduardo perché, in qualche modo, “incompiuta” come genere, visto che sta come il bilico, in un equilibrio molto instabile sul punto del collasso, tra due generi consolidati del teatro napoletano classico: il dramma borghese intimo, che si consuma  tra le quattro mura di una casa, e la commedia farsesca, al limite del surreale, alla Scarpetta. Una scarpettiana classica che deriva direttamente dalla pochade francese, con il tipico triangolo amoroso, lui-lei-l’altro e gli equivoci tragicomici che ne derivano.
Il nodo centrale della tragicommedia di Eduardo è tutto incentrato sulla domanda: “Ma i napoletani credono ai fantasmi?”.
Sì e no, si potrebbe rispondere, basandosi proprio sull’ambiguità comica tipica della pochade.
Il fantasma è, per il napoletano, legato indissolubilmente a una “dimora”, una casa vecchia, composta da grandi stanze buie, con grandi balconi che s’affacciano all’interno di un vicolo stretto, con grandi cortili con esedre scenografiche e scale barocche che se ne salgono, avvolgendosi su se stesse in veri e propri miracoli geometrico-spaziali, ai piani superiori, passaggi seminascosti, ingrottati gli uni negli altri come gli elementi di un grande puzzle, gli elementi di un inestricabile labirinto fatto di una miriade di porte con i battenti in pesante noce massiccia, sopraporte con architravi aggettanti, lunette e timpani spezzati ai lati dei quali vecchi putti tarlati ti osservano con occhi bovini e i corpi già obesi, le membra troppo paffute nell’esagerazione caricaturale del benessere corporeo suggellato da sorrisi ebeti aperti verso il vuoto di scuri muri dirimpettai.
E ancora balconi aperti su cortili e minuscoli terrazzini, balaustre barocche, inferriate poggiate su semipilastri di pietre di “fuoco”, piperni fiammati e basalti grigi, neri e pesantissimi. E poi piccoli corridoi illuminati dall’alto da lanternini dai vetri rotti e sporchi, scale e scalette improvvise, dietro un angolo, porte, varchi, volte ribassate, archi, pavimenti in riggiole sconnesse e consumate dall’uso, rosoni, finestrini che non si aprono  e polvere che si accumula da tempi lontani.
Questi i luoghi tradizionali d’elezione dove fanno la loro apparizione i fantasmi.
L’idea della commedia nacque in Eduardo, durante un piacevole incontro in casa di amici.  Lo racconta Luca, in un filmato di commento a Questi fantasmi, nell’edizione televisiva del 1962, aggiungendo che, alla festa era presente anche un prestigiatore. Parlando parlando, il gruppetto di ospiti, tra i quali Eduardo, incappò nell’argomento fantasmi e, quando qualcuno dei presenti manifestò il suo scetticismo circa l’esistenza delle anime vaganti dei defunti, il prestigiatore manifestò la sua opinione. Lui sì, ci credeva visto che, spesso, la sera, rincasando, aveva avuto la visione di un distinto signore che, uscendo da casa sua, lo aveva salutato con un cenno del capo senza dire una sola parola. Interrogata la moglie che era in casa, il prestigiatore aveva appurato che lei non s’era accorta di nulla, non aveva visto nessuno aggirarsi per casa.  Aveva dunque dedotto che dovesse trattarsi di un fantasma visto che lo aveva visto solo lui.
Un equivoco, questo, simile a quello che avviene nella commedia di Eduardo.

A Napoli ci sono molto palazzi, più o meno antichi,  che hanno fama d’essere frequentati da misteriose presenze, entità, spiriti molto spesso collegati, nella memoria del popolo minuto, a fatti di sangue che, in tempi lontani, dicono siano accaduti in quelle mura.
Ma se di queste presenze inquietanti si occupa Eduardo, in maniera ancora scarpettiana,  allora ogni paura si allontana.
Palazzi che godono della fama di essere abitati da spiriti a Napoli ne esistono numerosi: Palazzo DonnAnna, Palazzo Sansevero e la piazza San Domenico Maggiore. Luoghi, quest’ultimi, che appaino in Pietre.
Il gioco è presto svelato nel racconto: si tratta sempre di trucchi, stratagemmi inventati dagli uomini per ingannare altri uomini, al fine di trarre profitto dalla paura, un profitto che non è mai lecito.
Questi fantasmi è una commedia scritta da Eduardo nel 1945. La sua origine, però, risale al tempo del "Teatro umoristico", un sodalizio intelligente e, in qualche modo geniale,  tra i tre fratelli De Filippo, Eduardo, Titina e Peppino che ne erano i fondatori e principali animatori. La commedia inizialmente aveva nome Tutto per tutto.
Questi fantasmi, per sua natura, non si lega, se non molto marginalmente ai temi della realtà contemporanea ed è opera basata soprattutto su materiali e suggestioni onirico-fantastiche. E in questo consiste, a mio parere, la sua straordinaria forza e qualità artistica. 

domenica 3 luglio 2011

Come si reagisce all'oppressione?







Alfonso Bottone:
Una domanda più impegnativa. Ne parli in Pietre di Fuoco. Come si reagisce all'oppressione?



Giacomo Ricci:
All'oppressione si può reagisce facendo finta che non ci sia, fottendosene, continuando, per come è possibile, a vivere. I Napoletani sono dei maestri in questo. Oppure qualcuno se ne può andare di testa, reagire e, allora, fa la fine di Masaniello.
La prima è la strada seguita nella stragrande maggioranza dei casi. La seconda i Napoletani l'hanno seguita in poche occasioni, ma, contrariamente a quanto si dice, si tratta di una strada seguita con una certa frequenza, in particolare nei periodi di dominazione feroce, come quella spagnola del vicereame.
La cosa sconcia che è stata perpetrata ai danni dei popoli del Sud d'Italia  è di aver tolto loro la legittimità della storia. Ed è quello che si fa ancora oggi quando si dice che per risolvere il problema che Napoli rappresenta, ci vorrebbe il Vesuvio.Una bella eruzione esplosiva che cancelli la città, la sua munnezza, il covo d'infezione che rappresenta e, soprattutto, l'intera popolazione. Ma sì, una bella colata di lava e chi s'è visto s'è visto! Lo ha scritto Giannino, lo dice Calderoli, lo invocano i leghisti veneti.  I Napoletani sono, nella migliore delle ipotesi, sole-mandolino-putitpù e pizza. Qualcuno sa fare il comico. Ma poi, basta, per carità! I Borboni sono stati degli oppressori la cui filosofia era soltanto quella delle feste, della farina e della forca. Un popolo rozzo e ignorante va trattato così. Meglio se lo si elimina. Non si è fatto in questo modo con i Curdi, nella Bosnia, con gli Ebrei? E basta, ci stiamo ancora a pensare? I Napoletani sono una questione irrisolvibile, sono sporchi, affogati nei vicoli pieni di merda. Che ci vuoi sperare? Sono sporchi, brutti e cattivi.

Il fatto è che le cose non stanno affatto così, ovviamente. Alla stessa maniera che gli ebrei non erano una razza inferiore, nonostante Hitler si sia impegnato con tutte le sue forze a dimostrare il contrario. I Curdi, nonostante tutto sopravvivono, anche se con difficoltà. Gli indiani d'America, anche se nelle riserve, avevano una filosofia della vita straordinaria che oggi cominciamo a rimpiangere e così via. Insomma la storia ci insegna che le cosiddette soluzioni radicali, il taglio finale, sono sempre una schifezza che un gruppo di dominatori vuole imporre a un popolo dominato. Ma che i popoli dominati sia la nefandezza che i dominatori vogliono darci ad intendere, questo quasi mai lo si riesce a dimostrare. Anzi, con il tempo, viene fuori esattamente il contrario.
Andando a studiare la storia di Napoli, si scopre che il popolo napoletano è stato turbolento e non ha mai accettato la dominazione straniera. Non è un popolo sporco, brutto, cattivo, ignorante e incapace. E si è ribellato apertamente in più occasioni. Qualche nome a caso: il moto contro le gabelle condotto da Fuccillo, avvenuto sotto il vicerè Don Pedro de Toledo. E sempre sotto don Pedro, la sollevazione contro l'introduzione dell'Inquisizione alla maniera spagnola. Qui la sollevazione fu generale (plebe, popolo grasso e nobiltà) contro la volontà vicereale. Avete capito bene: il popolo napoletano, unito, lottò contro il peggiore rappresentante dei dominatori spagnoli, lo fece scappare a rinchiudersi nel castello per salvarsi il culo, e gli impedì la decisione politica di introdurre l'inquisizione. Don Pedro dovette rinunciarvi.
Il popolo napoletano, lo ricordo per inciso, è stato quello che in quattro giorni, ha definitivamente dat un calcio nel culo all'esercito nazista occupante, mandandolo via, cacciandolo indecorosamente. Erano qattro scugnizzi, ragazzotti armati di manici di scopa e mazze, pietre. Le armi degli scugnizzi. Li misero in fuga con i loro carrarmati. Guardatevi, signori della Lega, un film di un non-napoletano come Nanni Loy. Avrete di che imparare.
La storia di Masaniello, poi, più conosciuta ma travisata dagli storici, fino a quelli liberali come Croce. In particolare Croce (e i crociani) non hanno mai troppo amato Masaniello, ritenuto un rozzo plebeo, privo di istruzione e di spessore politico. Al contrario, a seguire la storia che ne tracciò Gioseppe Donzelli (Partenope liberata ovvero della sollevazione dell'eroico popolo napoletano per liberarsi del insopportabil giogo de gli Spagnuoli), amico di Masaniello, barone, medico, erborista e scienziato, Masaniello e i suoi Lazzari ebbero un comportamento esemplare durante l'incendio delle case degli arrendatori, delegati a riscuotere le gabelle ead amministrare la giustizia (figurarsi, la giustizia era esercitata da chi poteva trarne guadagno). Non presero nulla di quella merce infame, strappata al popolo con le angherie. Bruciarono tutto tranne i quadri di argomento religioso per rispetto a Dio, al Re di Spagna  e al Cardinale.
Un popolo che agisce così è certamente ignorante, misero, povero, furfante per sopravvivere, ma ci insegna, con la sua storia, che si è saputo opporre in maniera radicale all'oppressione straniera. E lo ha fatto con DIGNITA'.
Questa dignità è stata strappata ai Napoletani e alla gente del Sud con l'unità d'Italia. Per carità, non  i si fraintenda. La guerra per l'Unità è stata una guerra civile. Era necessario abbattere il Regno delle due Sicilie. Tutto il resto era ed è propaganda dei vincitori.  Masaniello e la sua pazzia sono stati interpretati, a suo tempo,  come l'incapacità del rozzo ignorante che, di fronte alla complessità del compito politico che gli sta di fronte, non riesce a fare altro che ad andare di testa e venir meno. I Borbone e la Santafede hanno fatto la stessa fine: regno infame di rozzi ignoranti, incapaci e terribili. Se si va a leggere - tra tutto - quello che scrive Goethe di Napoli settecentesca, si legge che: "Se nessun napoletano vuol andarsene dalla sua città, se i poeti locali celebrano in grandiose iperboli l'incanto di questi siti, non si può fargliene carico, vi fossero anche due o tre Vesuvi nelle vicinanze. Qui non si riesce davvero a rimpiangere Roma; confrontata con questa grande apertura di cielo la capitale del mondo nella bassura del Tevere appare come un vecchio convento in posizione sfavorevole".

Nessuno ha mai preso in seria considerazione l'iptesi - realistica, attendibile, palusibile - che Masaniello sia stato avvelenato, come raccontano e come sembrerebbe evidente per lo svolgersi degli avvenimenti subito dopo la colazione a Posillipo con il vicerè. Il fatto che la sua pazzia sia apparsa improvvisamente, in completa contraddizione con la lucidità che il capopolo ha mostrato fino ad un istante prima non è mai stata presa come possibile. La pazzia era dovuta alla sua incapacità strutturale. Questa l'interpretazione dominante. E può mai un plebeo affrontare i compiti che la storia, gli avvenimenti drammatici gli pongono? Il fatto che Genoino lo avesse abbandonato, perchè troppo radicale, che, insomma, la rivoluzione stesse fuggendo lui di mano non è mai stata presa come reale. Che sia stato stesso lui a tradirlo.
Ma in ogni caso, questo modo di concepire il popolo e gli avvenimenti del popolo napoletano e considerare tutte le scelte sempre sotto un'aura di illeggittimità, tende a sottovalutare e disprezzare un intero popolo e la sua storia. La cosa continua, senza sostanziali variazioni, anche oggi.

sabato 25 giugno 2011

Presentazione a Maiori di Pietre di fuoco

Martedì 28 giugno alle ore 21.00, presentazione di Pietre di Fuoco a Maiori, Anfiteatro Lungomare Amendola.

Maiori, lungomare Amendola

lunedì 13 giugno 2011

Questi fantasmi: Carmela, a' sorella do' guardaporte


Eduardo e Carmela

La chiesa di San Domenico maggiore


Dal canale di minuicch, uno splendido video sulla chiesa di San Domenico Maggiore
il canale di minuicch è un sito interamente dedicato alla bellezza e al suo culto. Non a caso si apre con una frase formidabile di Fedor Dostoewsky:


"La Bellezza salverà il mondo"


Non possiamo fare altro che sottoscrivere e sperare che l'affermazione dello scrittore russo sia veramente profetica. 
Vale la pena visitare il canale di minuicch per le straordinarie scoperte che si possono fare:


http://www.youtube.com/user/minuicch




Gesualdo da Venosa - La morte di Maria d'Avalos



Un bellissimo video su Gesualdo da Venosa, la Morte di Maria d'Avalos, la drammaticità profonda di una condizione esistenziale tragica espressa nella musica

Pietre di Fuoco: i materiali- l'aula di Fisica della Federico II




di Giacomo Ricci





Voglio iniziare  raccontandovi una storia, ma non d’invenzione. Una storia vera e, credo,  leggera. Tanti anni fa c’era uno studente del primo anno della Facoltà di Ingegneria di Napoli, testimone oculare del breve racconto che mi accingo a fare. Non so bene come siano, oggi,  organizzati gli studi di ingegneria, dopo gli sconquassi introdotti con le lauree triennali, il tre più due, ecc. Al tempo della nostra storia gli studi di Ingegneria erano strutturati in un corso di laurea che si potrebbe definire, con termini odierni, un “due più tre”, un biennio (questo sì, a tutti gli effetti  generalista, comune a tutti i corsi di laurea  di ingegneria) e un triennio specializzato che definiva e finiva il percorso di studi. Così diventavi ingegnere chimico, meccanico, edile, elettrotecnico, “stradino”  e così via. Il nostro allievo aveva scelto di seguire il corso di ingegneria elettronica e, come tutti gli altri allievi ingegneri al primo anno, divideva con  gli studenti della  Facoltà di  Scienze, i corsi di matematica, fisica e un esame  di chimica generale. 

Ma entriamo nel vivo della storia. 

Dovete immaginarvi l’aula di fisica della Federico II di Napoli. 

Il progetto del corpo centrale dell’Università,  che si trova tra il corso Umberto e via Mezzocannone,  lo si deve all’ingegnere Guglielmo  Melisurgo che lo fece insieme a Pierpaolo Quaglia. Grande personaggio Melisurgo, ingegnere del Comune di Napoli, famoso soprattutto per essere stato il primo “intellettuale” a immergersi, insieme ai fognaroli e i “pozzari”, nel sottosuolo di Napoli e tracciarne una planimetria dettagliatissima, che misteriosamente non è stata più trovata negli archivi storici dell’ufficio comunale
L’ingegnere,  tra l’altro,  fu anche l’autore del  progetto della facciata neoclassica e del corpo principale dell’Università di Napoli. Appena si entra da corso Umberto,   salita la breve gradinata sulla strada, dopo aver attraversato un atrio di grandi proporzioni nel quale confluiscono la grande scala che porta al rettorato e i due ampi corridoi a destra e sinistra che ospitano la facoltà di giurisprudenza e le aule,  passata la  gigantesca statua di Federico II che se ne sta sulla parete opposta all’ingresso,  si giunge nel grande cortile interno.  Questo è diviso  in due ampie corti,  specularmente uguali, da un imponente scalone centrale scoperto che conduce al primo piano, sul fondo della corte,  dove c’è una statua di Minerva, dea della saggezza e della sapienza. Da qui il nome di “scalone della Minerva”.  Ai due lati dello scalone due volumi simmetrici,  a pianta centrale poligonale, alloggiano, l’una dirimpetto all’altra,  due grandi aule a cavea, una di Chimica e l’altra di Fisica. Sono, a mio parere, le aule più significative, imponenti e belle (passatemi, benché desueto,  il termine) di tutto l’ateneo napoletano, anche delle più recenti realizzazioni in località Montesantangelo dedicate proprio alla Facoltà di Scienze e, un po’ più indietro negli anni,  dell’edificio del Politecnico progettato da Luigi Cosenza in piazzale Tecchio. 
Non so spiegarvelo con esattezza, ma l’aria, anzi, l’ “aura” che avvolge le due aule, l’atmosfera che creano con le rifiniture in legno, la loro forma “classica” da teatro greco, le cavee a emiciclo molto ripide con scanni e banchi continui curvi, ne fanno luoghi non solo degni di un’Università, ma elementi in qualche modo archetipici degli studi universitari, quelli che  trasformano  un luogo in  un’Università e non altro e  si legano, nel nostro inconscio, all’idea che sempre ci siamo fatti di un edificio  nel quale s’insegna il sapere. Nello spazio in basso, al posto del coro e della scena del teatro greco c’è  la lunga cattedra che va da un capo all’altro dello spazio disponibile. Le lavagne lungo tutto il muro, i due altissimi finestroni ai lati, la porta dalla quale entra il docente, tutto è pensato per far sì che la lezione sia una vera e propria rappresentazione spettacolare, una celebrazione, semplice e imponente allo stesso tempo,  dell’atto di sapienza, della dotta orazione del professore. 
Un allievo alle prime armi è certamente impressionato da tutto ciò, viene rapito in quest’atmosfera, si sente piccolo  e un po’ intimorito, ha la sensazione di vivere un’esperienza complessa, importante della sua vita. Dimentica di colpo il liceo e la sua aria, per così dire, “familiare”. Si rende conto, all’improvviso, di essere entrato ufficialmente nel mondo  del Sapere. 
Immaginate il nostro studente, seduto con gli altri in attesa della prima lezione di fisica sperimentale. Guarda con occhi straniti gli strumenti che sono disposti in bell’ordine sul lunghissimo piano della cattedra, il tubo sottovuoto dove vedrà per la prima volta, come si trattasse di un incantesimo, correre una piuma e una pallina di piombo alla stessa velocità verso il basso; in quell’aula  assisterà agli esperimenti di ottica, e vivrà la scomposizione di un raggio luminoso nei tanti colori dell’iride mentre passa attraverso un prisma, un cristallo trasparente e sfaccettato. 

Ed ecco il professore. 

E’ entrato, come il luogo richiede, con  gesto  teatrale,  scostando la pesante tenda di velluto che copre l’ingresso, e subito ha alzato lo sguardo in giro alla fila centrale della cavea mentre l’aula esplode per gli applausi. 
E sì. Ai tempi del nostro studente le lezioni si aprivano sempre con un lungo applauso diretto al professore del quale si salutava la fama, il destino, la storia. E lui si aspettava quest’applauso. Lo sosteneva proprio alla maniera di primo attore, capocomico che fa il suo ingresso in scena e parte l’applauso, magari guidato dal capoclac che rompe l’aria con il suo battito di mani deciso, imperioso, diretto soprattutto a convincere gli altri della clac più timidi, tirandosi  appresso   tutto il pubblico.
Poi le sue parole, che a poco a poco prendevano l’aria, leggere piume o farfalle che  salivano, come su un fresco alito di vento,  lungo la grande cavea, passando proprio un po’ al di sopra delle teste degli allievi. Questi, prima un po’ attoniti,  erano, poi, man mano presi dalla dialettica, dalle battute, dai cenni fugaci, dalle rapide incursioni in campi paralleli che lui invadeva con rapidissimi azzardi, sortite repentine e fugaci, appena accennate,  per poi tornare subito in argomento. Sprazzi di mondi, lampi improvvisi che accendevano la fantasia dell’uditorio, che alludevano, con maestria,  ad altro, che facevano intuire, supporre, pensare, suggestionando, suggerendo, aprendo porte su prospettive diverse per poi subito socchiuderne la vista. Metafore subitanee, parole sospese, tratti interrotti, schizzati con impressionante velocità. 
Lui, il professore, mentre parlava teneva la mano nel fianco, la giacca doppiopetto aperta e la camicia sparata di bianco con una cravatta azzurra lucida,  e preso dal discorso, che a poco alla volta l’infervorava, si levava gli occhiali e li passava da una mano all’altra. E  gli occhiali di volta in volta diventavano matita per tracciare immaginari grafici nello spazio o magica bacchetta evocatrice di mondi, sfere, pianeti e forze invisibili. Poi, rigirandosi rapido, s’avviava veloce verso la lavagna e, impadronitosi di un gessetto, tracciava grafici e schemi, disegnando una bottiglia, o una pila o richiamando brevi formule e equazioni. 
Ferrante d'Aragona, così chiamerò il professore,  era molto vanitoso e, diciamolo pure, un po’ supponente. Ma poteva ben permetterselo, sia per la sua tenuta di scena sia perché direttore dell’Istituto di Fisica della Federico II. E  faceva presto a informare, con le lapidarie parole che riporto, l’uditorio che:
«Tre sono i grandi fisici al mondo. Uno è Einstein, l’eccelso.  Il secondo è un italiano,  il grande Enrico Fermi e il terzo non lo nomino ... per modestia». 
A questo punto l’aula, letteralmente, se ne “cadeva” per gli applausi. Uso questa parola ricordando proprio Eduardo che, in Sik Sik l’artefice magico, ripete più volte, all’incredulo Ugo D’Alessio, aspirante “compare”, che  fa eco a pappagallo, poco convinto,  «E a chistu punto se ne care o’ teatro». 
Avrete ormai capito che quell’allievo alle prime armi con gli studi universitari ero io, giovane di diciott’anni. Ho vivissimo il ricordo di quelle lezioni. E ricordo che, a poco alla volta, ci abituavamo all’atmosfera, alle battute di Partelli, alle sue, per così dire, “intemperanze” e le sue - mi perdonerà dall’altro mondo ma lo dico con sincero  affetto e caro ricordo - “smargiassate”, le sue dimostrazioni a “sorpresa” proprio come un prestigiatore che riesce nel suo numero a impressionare l’uditorio. Così  le leggi della fisica scorrevano sotto i nostri occhi, illustrate dai suoi  esperimenti che avevano del mirabolante e, quasi sempre,  riuscivano perfettamente. Quasi sempre perché qualche volta il destino dispettoso comunque ci metteva la sua e qualcosa non andava proprio per il verso giusto e l’esperienza, come si dice a Napoli, faceva “fetecchia”. In questi casi Ferrante d'Aragona non si perdeva d’animo ma riprendeva di buona lena l’esperienza, non senza, però, aver lanciato un’occhiataccia a Mario, il suo tecnico assistente. Era senza dubbio sua la colpa che le cose non fossero andate per il verso giusto. Almeno così noi capivamo. 
La faccia di Mario era un programma, imperturbabile come una sfinge dai grandi baffoni neri, alla Groucho Marx, al quale sorprendentemente assomigliava, che ne nascondevano il labbro superiore ma, mentre io sempre rintanato nelle ultime file di posti, in alto, quasi vicino all’uscita,  non riuscivo a vederlo per la distanza, quelli più “secchioni”  sempre in prima fila,  giuravano di aver visto passare   nei suoi occhi un bagliore tra lo sfastidio e l’odio, come se dicesse «Ma tu vire a chisto. Ah,  Maronna mia,  ma tu vire, pe’ campa’, che pacienza ca nce vo’...».

Venne poi, come ho già ricordato, la stagione degli esperimenti di ottica che, come tutti sanno, per essere visibili, si devono fare al buio. Venne il turno della polarizzazione della luce, della scomposizione, della rifrazione. Navigavamo da qualche lezione, per così dire, al buio, illuminati da guizzi  e bagliori  improvvisi che mostravano come la luce seguisse bizzarrie che non avremmo mai sospettato. Tra applausi a scena aperta o i gridolini meravigliati delle giovani colleghe di scienze, o gli “oohhh!” di prolungata meraviglia degli allievi dell’accademia militare di Pozzuoli, cadetti-studenti in ingegneria aeronautica, Ferrante e Mario-Groucho, nel suo ineffabile camice nero,  ci conducevano per mano in quel giro illusionistico sull’ottica e le sue mirabolanti acrobazie da laboratorio.  
Fu durante  una di queste dimostrazioni che accadde il fatto. 
S’era spenta la luce centrale dell’aula e quelle sui due lati, tirate le pesanti tende dei due altissimi finestroni e ottenuto il buio pesto consueto necessario all’esperimento. Mario, sapientemente aveva messo tutto in ordine, sotto lo sguardo vigile e severo di Partelli, un prisma, un fascio di luce polarizzata che si sarebbe dovuto accendere nel buio al momento opportuno, qualche lente amplificatrice, opportunamente inclinata, distribuita  lungo il percorso del raggio luminoso. Nel silenzio che precedeva l’esperimento, nel buio della sala, tutti con il fiato sospeso per la suspence ...
Accade all’improvviso.  
L’irreparabile, l’incredibile: un suono irriverente, scostumato, arrogante, sfottitorio, anarchico, destabilizzante, terroristico, assurdo, preceduto da un:
«Ferrante , Ferrante d'Aragona, professore, grande fisicoooo ....». 
Il pernacchio più sguaiato, scioccante, voluminoso, potente che  abbia mai sentita in vita mia. L’ignoto sfottitore, inghiottito nel buio dell’aula, zeppa di studenti aggrappati a tutti i posti disponibili e in piedi sul fondo in alto,   da vero maestro aveva interpretato con magistero lo sberleffo più famoso di Napoli fin dall’antichità proprio  come ce lo racconta e insegna Eduardo nel famoso episodio  de L’oro di Napoli. Chi aveva fatto quel pernacchio, pensai subito, s’era allenato lungamente e duramente, con l’obiettivo di inchiodare il nostro, il suo professore. 
Seguì un attimo glaciale, ammutolito, incredulo. Poi s’accese la luce. Tutti noi , nel buio, eravamo scoppiati a ridere. Ma lo sguardo fisso, allibito, attonito di Ferrante ci gelò il sangue nelle vene. Il poveruomo non riusciva a parlare. S’era fatto paonazzo,  come uno che vede crollare l’Empire State Building o un’improvvisa eruzione del Vesuvio rovinargli addosso tragicamente. Non credeva ai suoi occhi, anzi, alle sue orecchie. Sbiancò e si fece rosso in un attimo. Urlò con quanto fiato aveva in gola:
«Chi mai è stato  questo ... ribaldo!».
Poi, senza pensarci su, era uscito furente dall’aula, sbattendo con violenza la tenda dietro di sé. 
Le ore e i giorni che seguirono furono concitati, frenetici. Gruppi di studenti si recavano in missione diplomatica verso lo studio di Ferrante d'Aragona nell’Istituto di Fisica.  Ci volle il bello e il buono per farsi ricevere. Dopo ore di contrattazione con la segretaria e un avamposto di bidelli e uscieri, si riuscì ad avere udienza presso il prof incazzatissimo. Ci vollero le scuse di tutti noi per convincerlo a fare lezione la volta successiva e  l’assicurazione che l’ignoto delinquente profanatore  sarebbe stato al più presto individuato. Ma, soprattutto, più che l’atto di contrizione di noi studenti, doveva aver agito l’invito del Rettore, prontamente informato del goliardico sgarro, a lasciar correre, di non dare eccessiva importanza alla cosa per non rendersi ridicolo e rendere ridicola, soprattutto, tutta l’Università. 
Vuoi come non vuoi, giungemmo alla lezione successiva. 
Tralascio tutte le premesse. Dico solo che la lezione riprese da dove era stata interrotta. 
Siamo, quindi, ancora una volta un attimo prima che la luce si spenga e l’esperimento parta. Si spegne la luce. Intravediamo a malapena Mario che, nel fioco tremore  di una candelina in un alambicco di lato,  fa gli ultimi preparativi. Ferrante non si vede perché tutto il resto dell’aula è nel buio più fitto. 
Puntuale, come tutti un po’ si aspettavano,  la voce a squarciagola nel buio. 
«Ferrante d'Aragonaaa, Ferrante professore, grande fisicoooo ....». 
E, subito dopo, il  rumore assordante, violento del pernacchio più squillante mai udito. Se possibile mi sembrò più forte della prima.  
L’oscuro attentatore ci aveva provato di nuovo, assolutamente sprezzante delle minacce del professore. 
Stavolta nessuno rise. Giaccio. Un attimo lungo quanto un secolo. Un lampo illuminò il buio. 
Non riuscivo a capire che cosa fosse successo. Mario accese la luce centrale. Ferrante aveva nelle mai una macchina fotografica da cronista con un flash potente. Svitò con lenta cattiveria la lampadina.
Si guardò in giro. Un ghigno maligno gli segnò le labbra sottili. 
«I colpevoli sono qua dentro» disse lentamente, con voce misurata, vendicativa, crudele. «Ci rivedremo agli esami».  Lanciò platealmente sulla cattedra la lampadina bruciata e girò le spalle, abbandonando con sdegno l’aula.  
Sarà come sarà, mentre usciva incazzatissimo partì un applauso da “se ne care o’ teatro” che durò per cinque minuti. Ma Partelli non uscì a ringraziare. 
Il colpevole non fu mai trovato e l’episodio non si ripeté più. Agli esami non vi furono rappresaglie. Anzi Ferrante si mostrò particolarmente disponibile con tutti noi. 
Alcuni dicono che l’irriverente suono non fosse prodotto da un essere umano, ma dallo “spirito” dell’aula che si vendicava perché insofferente di vedere, a ripetizione, sempre le stesse cose. Girarono voci su munacielliBelle Mbriane, fantasmi di studenti morti. L’immaginazione si scatenò. Tanto che se non fossi stato tra i testimoni oculari, anch’io sarei portato a credere che si sia trattato di una delle tante leggende metropolitane che girano per la città. Ma io so, perché c’ero,   che il colpevole ancora se la  ride da qualche parte.
Qualcuno ha pensato che si trattasse di un fenomeno di anticipazione della stagione del ’68 che sarebbe scoppiata di lì a qualche anno. Ma, ovviamente, si tratta di fantasticherie senza alcun reale fondamento. 
A corredo della storia voglio ricordare una mia recentissima delusione. Sono andato, qualche mese fa, a Napoli, all’Università centrale. Avevo con me la mia macchinetta digitale e andavo fotografando, per le ragioni che chiarirò più avanti, una serie di materiali visivi che avevano a che fare con il progetto che voglio qui illustrare. Nei materiali rientravano anche le immagini dell’aula di fisica che ho molto ben chiara nella memoria perché è un luogo che ricorre frequentemente nella mia storia e il mio legame  profondo con l’ateneo napoletano. Ma quale fu il mio dispiacere nel vedere l’aula chiusa agli studenti, trasformata, per così dire, in monumento, perché venuta meno la sua funzione. Così mi disse l’usciere all’ingresso quando chiesi perché la coppia di aule a cavea fosse chiusa al pubblico.
«Da quando la facoltà di Scienze si è trasferita a Montesantangelo»,  mi disse con un sorriso tra il complice e lo sconsolato, «le due aule hanno perduto la loro funzione quotidiana e vengono usate solo su richiesta di alcuni professori e riservate a importanti occasioni  accademiche».
Sì, anche lui, in qualche modo, avvertiva qualcosa di storto in questa decisione. Come se, cancellando una delle funzioni principali del corpo storico dell’Università di Napoli, se  fosse stato amputato, a crudo, un arto,  non si sa bene perché e da chi. 
Come ho detto le due aule sono state trasformate in monumenti, “mummificate” per così dire.  Forse si tratta di riconoscerne il valore storico e la funzione, ma, secondo me e il custode, si trattava anche della loro fine. Riflettendoci, si tratta, comunque, della fine di un modo di fare l’Università che, nel bene e nel male, ha rappresentato un’epoca, un modus vivendi, un sistema di valori. Malinconie di vecchi, taglierà corto qualcuno. Forse ma su questi cambiamenti sono sempre necessarie opportune riflessioni. 
Io sono sempre molto preoccupato quando si verificano mutazioni così radicali. Sono convinto di sapere quello che perdo ma non sono assolutamente certo di quello che avrò e se ciò che avrò sarà meglio di ciò che ho perduto. 
E’ una sensazione generale che non mi abbandona da qualche tempo. Le due aule mummificate sono una sorta di metafora dei cambiamenti radicali delle nostre università pubbliche, la loro definitiva fine. Qualcuno manovra, e nemmeno tanto all’oscuro, perché il mondo accademico antico - ritenuto tout court una zavorra inutile e farraginosa - se ne vada allegramente in frantumi o, peggio, mestamente in soffitta. 
Nel mondo universitario qualsiasi “innovazione” è stata sempre un maleficio, in un vero e proprio accanimento della cattiva sorte (o forse potremmo dire della cattiva volontà), un peggioramento - sempre notevole e in qualche modo devastante - degli antichi equilibri sostituiti da un “nuovo” assolutamente mai all’altezza del mondo al quale si rinunciava. Così è stato nel 1969 con la democratica liberalizzazione degli accessi, così con tutte le leggi successive, così con l’introduzione dei “crediti” che, di fatto, hanno vanificato la valutazione di merito degli studenti, così con le lauree triennali che non servono a nessuno e non hanno mercato, anzi hanno un effetto di drogare e intasare il già collassato mondo del lavoro, e così via. 
Tornando a Ferrante d'Aragona e al suo modo antico di fare lezione, la scenografia, l’applauso, il ruolo teatrale, quasi da avanspettacolo,  del docente, l’apparecchiatura che in qualche modo agiva direttamente e inconsciamente sull’immaginario di ognuno di noi studenti, tutto è stato gettato via. Certo: si dirà che era un impianto retorico illusorio e sostanzialmente sovrabbondante, una superfetazione, una degenerazione della mitologia accademica. Ma un ruolo importante l’aveva. Se non altro quello di mantenere in piedi l’ “aura” della funzione universitaria. 
Ricordo con Ferrante (che come avete capito è un nome inesistente, per una mia volontà di protezione dell’antico professore del quale ho un caro ricordo e affetto sincero) altri professori in grado di fare scena: Roberto Pane, per molti versi Giulio De Luca, Nicola Pagliara e la sua fortissima verve teatrale, istrionica, colta e scenica. E molti  altri ancora. Era un modo di fare università, un linguaggio, un insieme armonioso e architettato di segni fortemente funzionalizzati alla resa proprio dell’ “aura”, alla costruzione mitologica del mondo universitario. Un mondo che io credo avesse un suo profondo significato e un effetto assai positivo su noi studenti. Non fa nulla che di alcuni professori si costruiva il mito. Era proprio il mito, insomma,  oltre la loro capacità, a essere fondamentale nella nostra preparazione scientifica o, meglio, nella stimolazione delle nostre capacità di apprendimento. 

sabato 11 giugno 2011

Il Centro Antico di Napoli : decumano centrale



Continua la nostra visita virtuale al Centro Antico di Napoli. Un breve video su via Tribunali e dintorni

Intervento di Giacomo Ricci al Salotto Letterario di Mario Scippa


Il Salotto Letteraio Antichità Scippa è ormai una presenza culturale nel panorama urbano di Napoli
Per avere una visione dell'attività svolta vai al link:

http://www.facebook.com/group.php?gid=348071995475

Il Centro Antico: planimetria interattiva

Il link sotto porta ad una cartografia interattiva del Centro Antico di Napoli mediante la quale è possibile approfondire la conoscenza del tessuto urbano e di alcuni monumenti più importanti. 
Per interagire con la mappa è sufficiente cliccare sul link e, una volta nella pagina usare il tasto destro del mouse per ingrandire (zoom) e quello desto per spostarsi  (pan), come suggerisce la manina che appare sullo schermo. Si può ripetere l'operazione più volte fino ad ingrandire in una scala di dettaglio molto ravvicinata.L'esperienza è molto divertente. Basta seguire le indicazioni che sono fornite nella finestra pop-up. 
I link presenti nella planimetria sono segnati da quadratini rossi (che portano alle schede di Wikipedia) o dall'icona di una camera (che porta a filmati immagazzinati su youtube).
Buona navigazione


Il Centro Antico di Napoli - il decumano inferiore


Una passeggiata per Via Benedetto Croce, decumano inferiore del Centro Antico di Napoli

venerdì 10 giugno 2011

mercoledì 8 giugno 2011

Te si miso 'sta giacchettella a' mungelluzzo?

di Giacomo Ricci


Me l'ero sempre chiesto che volesse significare. Espressione antica, usata da mia nonna e, poi, da mia madre. Quando vedevano qualcuno con una giacchetta risicata, striminzita, con le maniche troppo corte, i fianchi troppo stretti, che saliva al di sopra della vita, se ne uscivano con l'espressione "Te si misa chesta giacchettella a' mungelluzzo?". Come tante espressioni popolar-dialettali di uso consueto, finiamo per farne uso per una vita senza porci tante domande. Poi capita, un giorno, di chiedersi da dove mai sarà sbucata fuori quell'espressione? E' la curiosità di sapere l'aneddoto, il fatto che nasconde. 


Giovanni Mongelluzzo

Sfogliando il libro di Sebastiano di Massa Storia della canzone napoletana ho trovato questa foto di Giovanni Mongelluzzo, attore di avanspettacolo e varietà ed ecco spiegata l'espressione. Giovanni usava giacchette risicate e un po' logore, per suscitare il riso. Così come fa, nell'altra foto, Peppino Villani. 


Peppino Villani

Un'abitudine che si è poi trasmessa fino ai tempi nostri. Penso a Nino Taranto, Vittorio Marsiglia e tanti altri.

Ricette gustose tra le pietre di fuoco

di Raffaele Ruggiero


Il 18 maggio 2011 c’ero anch’io alla presentazione di Pietre di Fuoco. Non ero informato adeguatamente, ma il titolo, l’autore e la mia naturale tendenza alla semplificazione non mi lasciavano dubbi: «si tratterà di un saggio sull’architettura, speriamo che mi faccia riconciliare con quella contemporanea, che per me è solo munnezza!».
Di proposito ho ignorato il libro già disponibile sull’espositore, mi sono accomodato e ho ascoltato. No, non era un saggio, ma un giallo ambientato nel centro antico di Napoli, con qualche puntatina verso i Quartieri spagnoli. Mi sono divertito moltissimo, ma in fondo me l’aspettavo, perché ho sempre pensato che Giacomo Ricci fosse un raffinato e ironico divulgatore della cultura “rotonda” e, nella circostanza, i suoi complici non sono stati da meno, proponendo con salottiera disinvoltura seducenti frammenti della storia e una nitida radiografia dell’autore. Non entro nel merito, perché tutto quel pomeriggio è raccontato in questo blog. Peccato per coloro che non c’erano, perché guardare un film non equivale a leggerne la sceneggiatura. A meno che del film non sia proprio Giacomo Ricci a parlare.
Per spiegarmi meglio, “devo divagare” e proporre un “intermezzo per il gentile lettore”.
Una mattina, verso la metà degli anni Ottanta, mi trovavo con Giacomo in uno dei box dell’Istituto di Composizione della facoltà di Architettura. Quel giorno i ricercatori si astenevano dallo svolgimento dell’attività didattica e, per solidarietà, mi astenevo anch’io, che ero un semplice cultore della materia e non sono mai diventato qualcosa di più. Giacomo aprì il giornale ed esclamò: «è morto Tarkovskij!». Io replicai, dall’alto della mia crassa ignoranza: «e chi è?». Così, soffocando generosamente la sua indignazione, mi spiegò chi fosse Tarkovskij e mi “fece vedere” il film Andrej Rublev, semplicemente raccontandolo. Ne conservo un ricordo molto più nitido di tanti film che ho visto realmente.
Scusandomi per il siparietto, ritorno a Pietre di Fuoco. Naturalmente ho letto il libro, che già nel sottotitolo, Saggio sul centro antico di Napoli, è fuorviante. Intendiamoci, non voglio dire che il sottotitolo sia bugiardo, ma soltanto che c’è un trucco. È un giallo, ma è scritto con la tecnica e i riferimenti tipici del saggio. Non è sul centro antico di Napoli, ma vi è ambientato. La storia è intrigante da seguire, con un finale sorprendente ma, in verità, assai poco intuibile. Al lettore che abbia per lo scenario ambientale e per il mondo accademico la stessa familiarità dell’autore bastano pochi cenni e qualche allusione sfumata per dischiudere un’infinita varietà di suggestioni che permettono di aggiungere al racconto “aperto” altre immagini, altri episodi, altri ricordi della mamma, della nonna, di Eduardo, di Totò e delle tradizioni popolari. I ringraziamenti finali, sui quali si è molto spettegolato, mi hanno ricordato lo sfizio che si tolse Michelangelo immortalando Pietro Aretino come San Bartolomeo e se stesso come una pelle umana, svuotata di carne e ossa.
La lettura ha appagato il mio particolare piacere di conversare con i libri, ai quali faccio domande, dai quali esigo risposte e varietà di argomenti, che preferisco chiamare “sapori”. Quei sapori che qui sono contaminati e amalgamati senza perdere la loro originaria connotazione. Chi conosce Giacomo Ricci sa bene che questo è il suo modo di essere, di operare, di comunicare, di insegnare. Io non lo conosco abbastanza da sapere dei suoi gusti gastronomici, né delle sue abilità di chef..
Però, mi piacerebbe che scrivesse un libro di ricette!