pietre

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Pietre di Fuoco - noir napoletano di Giacomo Ricci - Neftasia editore 2011

giovedì 26 maggio 2011

In un mare di contraddizioni intriganti







Silvio Perrella in dialogo con Giacomo Ricci

Perrella: Come è consuetudine quando sono in questo posto, più che dire delle cose cerco di entrare in dialogo con l’autore. Cominciamo col dire che ti do del tu. Ci siamo appena conosciuti ma mi sembra più comodo.
Ricci: Certamente.
Perrella: Ti farò delle domande e  poi Belfiore concluderà. Cominciamo a studiarcelo, questo libro. A parte la dedica,  tu inizi con due citazioni. Una di Libero Bovio e una di Salvatore Di Giacomo che metti in una maniera come se fossero un’introduzione al tuo libro. La prima è brevissima. Dice Bovio: “I romanzi gialli più vorrebbero atterrirmi, più mi mettono di buon umore”. E qui entriamo nell’ambito del divertimento, come diceva anche Giulio Baffi. Scrivere un libro del genere significa divertirsi. Sperando che lo stesso divertimento lo provino anche i lettori. Il primo divertimento mi pare è quello di alludere a una letteratura che parla di Napoli di cui questi due autori sono rappresentanti. E mi pare che tu faccia scrivere a Di Giacomo l’introduzione al tuo libro.
Ricci: Di Giacomo parla del principe Sansevero quando, ricostruendo la storia del  palazzo Sansevero, ci riferisce di un suo misterioso crollo, nel corso di un restauro, e non se ne comprendono bene le ragioni. Dopo il crollo appaiono strani fenomeni che attraversano le stanze del palazzo, si odono rumori sinistri, si vedono fiamme notturne, luci misteriose. Come se il principe fosse tornato a compiere i suoi misteriosi esperimenti alchimistici. E questa è la stessa atmosfera che crea Rafele, il famigerato portiere di Questi Fantasmi. Rafele racconta dei fenomeni misteriosi che caratterizzano il Palazzo, la capa d’elefante, i fuochi, le lampetelle sul terrazzo, il guerriero che, trombetta in bocca, cammina sul cornicione del palazzo. Tutto questo avviene in quella via che oggi si chiama via De Sanctis, dov’è la cappella Sansevero. Lì c’era un passaggio aereo che collegava la cappella al Palazzo Sansevero. Nel crollo anche il passaggio rovinò e da allora non è mai più stato ripristinato. L’ala che è crollata è proprio quella dove erano le stanze nelle quali furono scoperti in flagrante adulterio e uccisi i due amanti Maria d’Avalos e Fabrizio Carafa dal marito di lei Gesualdo da Venosa.  Tutto il popolo ha vissuto questo crollo come fatto terribile e misterioso, come racconta Salvatore Di Giacomo. Posso fare un inciso?
Perrella: E ti possiamo mai dire di no?
Ricci: Alcune cose del libro io ve le devo raccontare. Prima Giulio alludeva all’espressione “Giacchettella a Mongelluzzo”. Il significato è presto detto. Mia nonna, e poi mia madre, quando vedevano che indossavo una giacchetta troppo stretta, strimin zita, ricorrevano a quest’espressione. Una prima interpretazione era che mongelluzzo fosse l’aucelluzzo di cui parla Carmela, la sorella del guardaporta in Questi Fantasmi. Giovanni Mongelluzzo è un attore di varietà, avanspettacolo, caffè chantant, che portava giacchette risicate, da cui l’espressione. Salvatore Di Giacomo insomma mi serve per introdurre l’atmosfera magica che ruota intorno al palazzo.
Perrella: Mi pare di più. Tu usi Salvatore Di Giacomo con un significato più ampio. Nel senso che ti piace intonare il tuo lavoro con le sue parole.
Ricci: Soprattutto con le parole di Libero Bovio. Questa tesi è quella che più mi diverte dei libri gialli. Il loro aspetto comico. O il comico involontario perché sono fatti tanto male da suscitare l’ilarità di chi legge. Oppure quando, con grande maestria, si unisce il comico al tragico e al terrore. Si ottiene una miscela veramente esplosiva che, spesso, è tipica del teatro napoletano. Proprio Questi Fantasmi rispetta questo clichè. In questa commedia non si capisce mai il limite tra il comico, il tragico, la paura e la disperazione. L’equivoco che genera di continuo l’irruzione del tragico nel comico e viceversa. L’irruzione del fantastico, dell’irrazionale, dell’inusitato nella nota della spesa di ogni giorno è ciò che mi piace di più. Quindi il mio obiettivo è quello di predisporre l’ambiente e il lettore al noir, al cadavere, all’omicidio efferato, ma con una nota comica che non deve abbandonare mai la scena.
Il libro giallo, insomma, c’è ed è costruito con le regole rigorose di un giallo,  quelle stabilite una vota per tutte da SS. Van Dine, per capirci. Non si può derogare da queste regole perché si corre il rischio che il lettore, sentendosi frodato, getti via il libro prima di giungere alla fine. Ma la letteratura di genere mi serve come buon pretesto per il divertimento. Così Salvatore Di Giacomo mi fornisce il destro a quest’operazione strutturale cui tendo. Di Di Giacomo amo la capacità di creare un’atmosfera distaccata, leggera, disincantata, a volte effimera, sfottitoria, tra il serio e il faceto con la quale descrive il Palazzo Sansevero.
Perrella: Ecco tu hai parlato di divertimento. La parola divertimento significa anche deviare da un percorso, andare da un’altra parte. Questo libro è un giallo ma ha un sottotitolo che allude ad altro. Uno dei tuoi divertimenti è dunque quello di infilare un saggio all’interno di un romanzo giallo, tant’è che al capitolo otto tu dici che devi divagare e devi tornare al tuo mestiere vero che è quello di saggista. Fai una digressione su Vico Lungo Gelso, il suo rapprto con la collina, accenni a Pedro de Toledo, ecc. Vorrei che tu ti fermassi un po’ su quest’aspetto. Il fatto che tu da architetto presti molta attenzione alla tpografia della città. Questa è una caratteristica tipica della letteratura su Napoli. Molti romanzi su Napoli hanno nel titolo quersta volontà topografica, nomi di strade come Montedidio, Via Gemito, una strada, insomma, e tra l’altro, ieri ne parlavamo alla presentazione del libro di Pasquale, ma anche titoli come Il ventre di Napoli di Matilde Serao prende lo spunto da un intervento urbanistico che muta il volto della città e che lei fa diventare un racconto.  Fermati un attimo su questo divertimento, di scrivere un giallo con  un saggio al suo interno.
Ricci: Il mio problema, in realtà, è stato l’opposto: come abbandonare il terreno che mi era consueto quello del saggio per una letteratura tendente al romanzo. Sono stato perseguitato a scrivere tanto per una vita, sforzandomi di farlo al meglio, senza che mai nessuno si sia letto una mia pagina per intero …
Perrella:  E non ti sei mai fatto delle domande, diciamo, sul perché …
Ricci: Certo, perché, evidentemente scrivevo una vera schifezza cose che non interessavano nessuno. Certo il problema era mio, ma forse anche del fatto che oggi nessuno legge, forse.
Voglio dire che, per una vita, sono stato professore, pedante, noioso, troppo analitico. Mentre,  invece, la scommessa che ho tentato adesso è quella di informare le persone in maniera divertente. La stessa serietà negli intenti e nelle prospettive culturali, per così dire, ma la forma leggera, divertente, apparentemente leggera, semplice in grado di arrivare più diretta alla significazione e alla comunicazione con tutti.
Ci sono episodi che mi hanno divertito molto anche in fase di costruzione, dove ridevo di buon gusto quando l’idea andava prendendo corpo a poco alla volta, come la scena dell’inseguimento di Maria d’Avalos  e la grande mappata di panni, scarpe, pezze, travolge i protagonisti che prendono questi oggetti per altrettanti fantasmi e ne sono terrorizzati.
C’è un personaggio straordinario del libro che è don Arturo che potete ritrovare pari pari nella realtà, il custode della chiesa di San Domenico Maggiore.
Tra l’altro c’è nel libro un’invenzione di cui vado fiero che è il Re.Po.Na.C.A., la Rete dei Portieri Napoletani del Centro Antico, una società onlus.
Perrella: Questo libro si ambienta nell’Università. La persona che viene trovata morta è un professore universitario…
Ricci: E’ un preside, un preside di Facoltà.
Perrella: ecco già inserisci la gerarchia dentro…
Ricci: E per forza. Se non si chiama in ballo la gerarchia, parlando dell’Università, si rischia di fare un discorso che non ha senso. L’Università, sotto questo profilo, è proprio come l’esercito.
Perrella: Vi leggo che cosa scrive nei ringraziamenti così capite con chi avete a che fare: “E’ del tutto ovvio che le persone di cui si parla e i personaggi sono immaginari”.
Ricci: Avete avuto notizia di un preside decapitato nella cappella Sansevero? E’ dunque evidente che si tratta di immaginazione.
Perrella: Questo da un punto di vista letterario. Tu scrivi: “L’università di cui qui si parla, nulla ha a che fare con la gagliarda istituzione napoletana. Questa, come è a tutti noto, non è mai stata attraversata da conflitti, idee e comportamenti che non fossero basati esclusivamente sul merito, il progresso della ricerca e la disinteressata attenzione alla crescita della cultura e la rigorosa preparazione delle giovani generazioni”. Qua non lo hai perso il filo …”
Ricci: No, qua non l’ho perduto. E quando uno si deve togliere una pietra dalla scarpa se la leva …
Perrella: In realtà quest’università di cui qui si parla è attraversata da molti morti, una carneficina …
Ricci: Non mi pare, non sono più di tre, quattro al massimo …
Perrella: L’uso dei computer  è molto connaturato al romanzo. Addirittura si scannerizzano delle opere d’arte. E si scannerizza anche l’esperimento del Sansevero, del corpo con il sangue pietrificato dentro e proprio quando si sta cercando di capire se è vero o non è vero, si perde il filo della narrazione perché succede qualcosa che impedisce la scoperta. Questo mi sembra un punto importante del racconto perché tu ti chiedi se il principe era semplicemente  uno che giocava o era uno che usava la ragione in un momento particolare come l’epoca dei lumi.
Ricci: La figura del principe di Sansevero è uno dei nodi dell’immaginario napoletano. E dicendo questo non si scopre nulla di nuovo. Ma interessante è il fatto che attorno alla sua figura sono state costruite, ad arte, tutta una serie di fantasie. Queste però si possono definire tali fino a un certo punto. Perché una fantasia quando è costruita, ripetura, propagandata più volte e quando alla fine si costruisce attorno ad essa una vera e propria aura, diventa vera e reale anche se si tratta di una falsità. Alla fine non ci ci interroga più sul suo indice di verità, ma la si vive come fatto compiuto. E il principe Sansevero è un negromante e la storia che si racconta su di lui è terribile e crudele perché le due macchine anatomiche, i due “cadaveri” che si trovano nella cappella Sansevero, sarebbero, secondo la vulgata, secondo le fantasie popolari, le conseguenze visibili di un processo di metallizzazione dei sistemi sanguigni di due esseri viventi reali, ottenuta mediante una sostanza inventata dal maledetto principe alchimista, in vena d’infernali sperimentazioni. Perché il processo e la sostanza iniettata, infatti, potesse avere effetto portando alla metallizzazione degli interi sistemi di vasi, era necessario che gli esseri su cui si sperimentava fossero vivi, che il sangue, cioè, circolasse. Perché altrimenti l’esperimento non avrebbe potuto aver luogo.
Le due macchine anatomiche, una maschile e una femminile, ancorchè piuttosto macabre, però, non smettono di apparirci come una sorta di gufi impagliati, quindi piuttosto comici che non terrificanti.
Questa è la vulgata. Pare che però si sia accertato, dalla presenza di una bolla di pagamento, che il principe avesse commissionato ad un medico palermitato, tal dottor Salerno, il compito di allestire le due macchine in maniera artificiale, fornendo egli stesso il materiale (questo sì prodotto del suo ingegno alchimistico) da usarsi al posto del sistema venoso-arterioso da imitare.  Fatto sta, che, comunque, il dubbio è sempre rimasto e su questo si gioca per aumentare il fascino macabro e un po’ morboso del luogo e attirare quanti più visitatori possibile. L’arte starebbe tutta, insomma, nella costruzione di quell’aura, di cui dicevo, dell’atmosfera di mistero e occulto con sapienza e dosinvoltura. Ma impedendo, soprattutto, qualsiasi analisi scientificamente valida dell’effettiva natura dei materiali delle macchine anatomiche. Ora tutta questa complessità nel libro è affrontata ma non c’è risposta. Non si può impunemente andare contro l’immaginario sedimentato. Sarebbe come dire che la liquefazione del sangue di San Gennaro è una truffa. E’ una parola!  E chi si potrebbe mai permettere, pur avendone le prove, di fare una tale affermazione?
 Come si può andare a giocare con mitemi così fortemente radicati nell’immaginario popolare? La cosa, però, interessante – io l’ho visto, qualcuno della mia età l’ha visto – è che ai piedi della macchina anatomica femminile c’era un feto che poi è stato trafugato. Questo furto ha un sapore blasfemo e in qualche modo inquietante e potrebbe aprire la nostra  fantasia verso interrogativi di cui è difficile dare risposte chiare e univoche, facendo intravvedere scenari poco rassicuranti e perturbanti.
Perrella: Questo può essere l’inizio di un altro romanzo
Ricci: Potrebbe essere. In qualche maniera insomma questo furto butta una luce un po’ sinistra su questa storia. Ma la mia tesi è che il principe Sansevero sia stato un intellettuale, a suo modo scomodo, per l’epoca che rappresentava, tipico esponente di quell’arte della meraviglia fiorita nella luce dell’Illuminismo, un intellettuale provocatore attento e beffardo, una avanguardia degli intellettuali dell’Ottocento che cercavano risposte alle miserie della realtà nella scienza, nella ragione e nelle ideologie di libertà. Essere un intellettuale razionale, uno scienziato, un ricercatore nell’epoca ancora immersa con i piedi oscurantisti da inquisizione  non è cosa da poco.
Perrella: La paura popolare è un mostro da dominare con l’intelletto e il ragionamento come aveva fatto il principe Raimondo. Ma quale negromante e mago. Il principe era stato soprattutto un intellettuale, uno scienziato, un geniale ricercatore dell’epoca dei lumi. Straordinaria l’epoca dei lumi, capace, per l’appunto, di illuminare. L’unico rimedio contro la paura era la cultura.
Verso la fine parli della Madonna di Montevergine. E’ molto bello quello che scrivi. Leggilo tu.
Ricci:  “La madonna di Montevergine, mamma Schiavona, è una delle madonne più belle e amate. Come per le altre si dice che  l’abbia dipinta San Luca in persona e che sia, per questo, il ritratto autentico della mamma di Gesù, la madonna odeghetria. Dell’antico ritratto è sopravvissuto solo la testa, nera e bellissima incastonata in una tavola grande. Ma è anche Madonna festosa, bella, pacchiana e raffinata, danzatrice e seducente, pia e casta ma anche un po’ zoccola. Per carità non credetemi un bestemmiatore. Non lo sono assolutamente, data anche la mia latente bigotteria. Voglio però qui riferire il pensiero di Giuliano che elabora le credenze popolari”. 

Documentazione e Invenzione



di Claudio Cajati
Con questo romanzo, Giacomo Ricci passa da un lungo magistero di saggista alla dimensione del narratore. Ma una dimensione narrativa che non esclude e non emargina quella saggistica. Come ci avverte subito il sottotitolo: "Saggio sul Centro Antico di Napoli".
Ci si domanda allora: come può un romanzo essere al contempo un saggio? La risposta risiede qui nella specifica forma con cui la trama romanzesca si avvale della documentazione, inglobandola e sublimandola nell'invenzione.
L'oggetto storico su cui si impernia la creazione narrativa è fatto di ellissi e zone d'ombra, di suggestioni leggendarie che sin dall'inizio sfuggono ad una univoca sistemazione filologica. Un passato evanescente, leggendario, ambiguo, spettrale può essere ricomposto  in forma di saggio, proprio se e solo se diventa materia di una interpretazione narrativa.
Dalle ombre della documentazione alle luci dell'invenzione. Questa ci sembra la procedura attuata dall'Autore, secondo un filone che attraversa una tipologia del romanzo storico. Come, per fare un esempio, nel romanzo Bomarzo, dello scrittore argentino Manuel Munica Lainez, che è un saggio e una invenzione narrativa, inestricabilmente intrecciati, sul Rinascimento italiano.

mercoledì 25 maggio 2011

Alcune domande: riusciremo a rispondere?

Alcuni materiali del background di Pietre di Fuoco:


 di Giacomo Ricci

1.  Perché “pietre di fuoco”. Sono le pietre dei monumenti del Centro Antico di Napoli in un duplice significato: letterale, pietre di fuoco,  perché generate dal vulcano, pietre magmatiche (graniti, basalti, piperni) o piroclastiche (il tufo giallo napoletano, pomici, lapilli); metaforico-simbolico perché i monumenti napoletani sono segnati da una storia tormentata e tragica, di dominazioni di secoli, violenze, sopraffazioni, tumulti popolari, fuoco come rivolta, sovversione, repressione, sangue sparso.
2.     Lo scopo di dare luogo ad una fase neoeducativa, per così dire, sul Centro Antico di Napoli e il suo valore, oltre che la sua straordinaria bellezza. Dopo la straordinaria lezione di Pane e il suo essersi ridotta a mero strumento di repressione di un neo-immobilismo-proibizionismo assolutamente asfissiante e da giannizzeri-pizzardoni,  ci si rende conto che, oggi nel paradosso-dualismo Bellezza-Munnezza ci deve pur essere, da parte degli intellettuali partenopei, una decisa presa di posizione culturale, nuova, originale, capace di inglobare anche lo scontento popolare e la sua "anima", per così dire. Sembra, al contrario, che il grande assente, nelle contraddizioni che la città è costretta a vivere,  sia proprio la cultura che tace, anch’essa seppellita dalle montagne di munnezza o squallidamente arroccata nei propri orticelli di dominio (accademico e non).
3.     La colpevole ignoranza dei massmedia che, al di là del folclore, del trito e ritrito piedigrottismo napoletano, non sembrano spingersi. Napule e canzonette. Piedigrotta e putipu'. Tutta qui l'anima napoletana. Qualcuno ha detto che ci dev’essere, da qualche parte, un vero e proprio progetto di annichilimento della coscienza giovanile. Perché una massa considerevole di persone colte fa paura a qualsiasi regime, a qualsiasi forma di potere. Allora dagli con l’ignoranza. E dagli con l'abbandonarla nelle mani della camorra, come bassa manovalanza.
4.     La dolosa volontà di appiattimento di ogni forma di dissenso e originalità interpretativa dell'esistente,  nel generale amalgama culturaltelevisivo che appare, quindi, come  atto deliberato, programmato.
5.     Lo sperpero sciagurato del nostro patrimonio culturale urbano.
6.     L’assoluta colpevolezza di istituzioni come l’Università. E mi rivolgo, in particolare, alla "Federico II", alla sua dirigenza, ai quadri, per così dire, che appaiono sempre più assolutamente inadatti al compito gravoso che sta loro di fronte.
7.     La domanda legittima: esiste per caso un piano di affossamento dell’Università pubblica accessibile da tutti?

Pietre di fuoco è, insomma, un esperimento letterario teso ad attrarre e a fcalizzare l’interesse del lettore su alcuni temi urbani. Si tratta di un vecchio discorso educativo mai del tutto tramontato. La letteratura di genere come possibilità di “piccoli capolavori” della cultura popolare. Un dialogo immediato e profondo. Vi ricordate di Toto', del suo successo popolare e della sua sfortuna critica?
Gli ingredienti di una operazione simile potrebbero essere:
a)    il dialetto come lingua e sostrato antropologico di significati profondi e stratificati nel tempo.
b)   le invarianti antropologiche e la loro sostanziale inalterabilità nel tempo, quasi si trattasse di veri e propri parametri metastorici.
c)    Gli ambienti esterni, come prolungamento del corpo dell’abitante della città.
d)   La città analoga, di cui parla Aldo Rossi come luogo dell’elaborazione intellettuale  sul significato della storia della civiltà. L’anima della città da Cattaneo a Rossi.
e)    I monumenti come poli di accumulazione di significati: i luoghi della cultura alta, i luoghi della cultura popolare.
f)     I fantasmi nella tradizione antropologica e narrativa di Napoli e nella letteratura critica: il principe Sansevero, Maria d’Avalos, o' munaciello secondo Benedetto Croce, Matilde Serao e Salvatore Di Giacomo.
g)    Il teatro napoletano tra tragedia e farsa: il luogo del dramma degli interni. La tragedia dei nobili e la farsa, la comicità scurrile del popolo. Il dramma piccolo borghese.
h)   I gesucristi e le madonne, parafrasi dei povericristi del popolo e delle loro ricorrenti, cicliche tragedie. La rassegnazione e la rivolta.

Farò circolare questa specie di questionario chiedendo risposte.  Vediamo che succede. Se magari qualcuno ci propone riflessioni convincenti e strade da seguire. 

Il fratello terribile nascosto in un noir

di Pasquale Belfiore







Per i pochi che non conoscono Giacomo Ricci è evidente che ci troviamo di fronte ad un personaggio irriverente e contraddittorio, però sullo sfondo di un talento scientifico e artistico conclamato. Giacomo Ricci è pittore, disegnatore, straordinario disegnatore. Ci sono dei suoi quadri che sono disegnati alla maniera di Escher che richiedono una pazienza e doti analitiche del tutto fuori scala rispetto all’esuberanza che appare anche nei primi approcci di questa sera. E poi è un ricercatore rigorosissimo. Gli mancava in queste tipologie di produzione il romanzo. Io sono quasi un suo recensore ufficiale che questa sera si occuperà anche di questo suo aspetto. Io questo romanzo, per la verità, l’avrei chiamato l’Accademia del crimine. Lui l’ha chiamato “saggio sul centro antico” ma per le cose narrate forse il titolo che io propongo sarebbe stato più giusto, perchè, in sostanza, i criminali sono dei professori universitari ai massimi livelli di responsabilità.
Ricci: E vi ha spiattellato la fine ...
Belfiore: Non è l’università come la intendeva Giovanni Leone. Per lui il carcere era l’accademia del crimine, invece qui il titolo è proprio indovinato. Oppure si potrebbe anche chiamare un’Autobiografia, perchè questo è un romanzo che, nella sua costruzione, nella sua trama, nel suo stile di scrittura, alto e basso, somiglia molto al carattere e alla formazione di Giacomo Ricci.
Ci sono poi delle frasi rivelatrici, all’interno di una narrazione lunga e complessa che alle volte danno la spiegazione di come funziona il meccanismo. Giacomo parla, ad un certo punto, di questo fratello terribile che alberga in ognuno di noi. E’ un’immagine di Jung che è una sorta di Mr. Hide. Un dualismo in base al quale possiamo leggere l’intera trama. Apartire da, come l’ha già detto Giulio Baffi, dai titoli di coda, che sono una palese bugia. La storia che qui si narra è di fantasia. Posso testimoniare che non è vero perchè sono stato, come Giulio, prelettore di questo testo e ognuno di questi personaggi ha un nome e cognome preciso, ha un ruolo accademico, una storia. Cioè i fatti narrati in questo romanzo sono tutti autenticamente veri. 
Baffi: Manca la capa, ma insomma ...
Belfiore: Perchè probabilmente in questo fratello terribile che è in noi la vicenda accademica che Giacomo ha vissuto, com’è del resto nel suo carattere in maniera molto tragica e dissociata, pur avendo fatto un’onorevole carriera - non si pensi che Giacomo sia uno sconfitto dell’Accademia, Giacomo è personaggio non solo stimato in tutto il mondo scientifico ma ha prodotto pure dei contributi rilevanti  - eppure era una sorta di “vendetta” nei confronti di un’istituzione che egli non ha mai amato perchè era un’istituzione che ha un carattere, una storia, dei rituali che sono completamente eccentrici all’eccentricità di Giacomo. 
C’è una strana ricorrenza, non per la storia e le fantasticherie sul principe Raimondo di Sangro  che naturalmente ci portano in maniera automatica verso una cultura orfica. C’è una strana ricorrenza molto più concreta che ci riporta a questa disponibilità degli architetti a praticare una linea di ricerca romanzata, potremmo dire. Esattamente un anno fa è uscito un bel libro di Attilio Belli, che tutti conosciamo come ragguardevole professore di urbanistica, che si chiama Fuoco ai Quartieri Spagnoli. Naturalmente credo che Giacomo e Attilio non si siano mai dati intesa su ciò. Pietre di Fuoco si chiama il libro di Giacomo Fuoco ai quartieri Spagnoli quello di Attilio. Il protagonista del romanzo di Attilio Belli si chiama Giacomo. La scena finale tratta di una città che s’incendia. E quale parte della città s’incendia? Una parte del Centro Antico,  I Quartieri Spagnoli. Quale parte, nel finale quasi piedigrottesco del libro di Giacomo, si brucia, una parte del Centro Antico. 
Naturalmente il libro di Attilio è un romanzo con un incipit e delle pulsioni molto più politiche com’è nel personaggio, nella sua formazione, nel suo impegno politico, sindacale, universitario, che tutti noi conosciamo. Molto più romanzata e letteraria la trama di Pietre. Però queste ricorrenze dell’una e dell’altra opera danno da pensare. 
Lo stile narrativo. Naturalmente ci siamo tutti accorti - per me che lo conosco da più di 40 anni non è una novità - dell’accentuazione vernacolare del linguaggio adoperato da Ricci in alcuni particolari passaggi. Definirei una sorta di raffinato snobismo il suo  usare in maniera esibita espressioni dialettali. Abitudine che appartiene al suo standard nei rapporti verbali che, però si prolunga nella pagina scritta. E’ facile dire livello alto e livello basso. Anche se si tratta di categorie interpretative che da un po’ di tempo non sono tra le più predilette e usate. Nel romanzo troviamo raffinate descrizioni saggistiche (la pianta di Melisurgo, la storia dei quartieri spagnoli) accanto a delle espressioni plebee sguaiate che non sono più tali quando assumono piena intenzionalità letteraria come qui fa Giacomo Ricci. 
La cultura di base di Giacomo Ricci è di tipo scientifico anche se la cosa potrà destare meraviglia in alcuni di voi. 
Quindi usa questo doppio registro, con salti da un livello raffinato, colto a uno basso,  popolaresco. Si trovano esempi anche in noti precedenti letterari, come ne Gli alunni del sole di Marotta, una sorta di piccolo circolo Pikwick partenopeo che si riunisce, se non ricordo male, in una guardiola di portiere parlando della vita, delle cose di ogni giorno e di filosofia spicciola. 
E poi ho notato ancora un’altra particolarità. Si tratta del primo del primo impegno letterario di Giacomo Ricci ed è come se, man mano proseguendo nel racconto, affinasse a poco alla volta  la sua scrittura narrativa.  E come se il procedere nella scrittura andasse essenzializzandosi. Le ultime pagine diventano avvicenti. Per cui la parola noir si invera in particolare negli ultimi cinque capitoli. Una maggiore concisione, e un crescendo finale del tutto inatteso. 
Un’ultima osservazione. Per tornare e concludere su questo tema del fratello terribile. Tutto quello che Giacomo ha scritto lo spaccia per finzione ma, dal suo punto di vista,  è una realtà. Egli non fa nulla per esorcizzare questa realtà, perchè il fratello terribile che è in lui pensa che l’epilogo dei fatti debba proprio essere quello descritto nella storia. In questo caso questa doppia natura di Giacomo esce fuori a tutto tondo ed è quella che più attrae. Uno straordinario talento che gioca con se stesso e che gioca con tutte le tipologie del fare artistico. Grazie. 

martedì 24 maggio 2011

Pietre di fuoco tra Questi fantasmi e le storie di Napoli antica

di Giulio Baffi

Nella presentazione di Pietre di Fuoco al Blu di Prussia avvenuta il 18 maggio scorso Giulio Baffi ha detto:

"Grazie a Imma che è stata molto generosa nel presentarci, grazie a Giacomo e grazie a voi che siete presenti.
Da quello che Imma Pempinello ha detto si è capito che io qui sono fuori posto. Chissà perché ci sono. Perché sono qui a presentare un libro di Giacomo Ricci. Chi mi conosce di più sa che sono qui perché Giacomo Ricci fa parte della mia vita. E, in qualche modo, io faccio parte della sua. Ed eccomi a presentare questo romanzo giallo  “saggio sul Centro Antico di Napoli”.
A me piace pensarlo come percorso. Naturalmente ho detto sì a Giacomo, per antico affetto sicuramente, ma perché Giacomo mi ha coinvolto in questa sua scrittura facendomi leggere molto presto, prima di altri e prima anche degli editori, questo suo scritto. Così come mi ha coinvolto altre volte in tutte le cose che pensava e faceva, non si sta mai fermo un momento, non lo ha mai fatto negli ultimi quarant’anni di vita che ci vedono in qualche modo  intersecati. Molte prime cose ho visto del suo lavoro.
Chi mi conosce sa che mi occupo di teatro. Uno dei miei problemi quando devo parlare di uno spettacolo  che ho visto è non devo mai raccontare – è una regola cui tengo molto – che cosa sono andato a vedere e che cosa gli eventuali spettatori  debbono andare a vedere. Cioè non si raccontano le storie. Bisogna vederle.  Allora il compito è quello di fare venire la curiosità  a chi non ha visto o non ha letto ancora. Allora mi chiedo se è possibile fare venire la curiosità  a chi non ha letto  perché penso che molti di quelli che vengono  alla presentazione di un libro non hanno ancora letto il testo. Perché se l’avessero letto forse non ci verrebbero. Già sarebbero soddisfatti  o insoddisfatti e quindi, manco uccisi, si muovono da casa.
Come parlare di un libro senza parlarne? Come costruire un percorso al suo interno? Nel caso di Pietre di Fuoco, per quanto mi riguarda, l’imperativo diventa categorico perché si tratta di un giallo e, per chi è appassionato del genere,  guai a parlarne. 
A me, al contrario,  piace sapere subito  come va a finire  una storia . Se è un giallo mi vado a vedere la fine. Così,  ah!, mi metto l’anima in pace e poi me lo posso leggere con calma, godendomelo. Ma mi rendo conto di essere una abominevole anomalia. 
Quindi della storia di questo libro, di quello che accade non se ne può parlare. Sappiamo  che comincia – e questo lo si può dire -  con un  cadavere trovato  senza testa ed è l’unica cosa che possiamo dire perché è una notizia riportata sulla quarta di copertina. Siamo autorizzati  a svelare l’inizio. 
Il cadavere è in un posto famoso.  Circostanza, questa,  che mi ha incuriosito all’inizio, perché appartiene al percorso che il libro ci conduce  a fare nel Centro Antico di Napoli. Il luogo del quale stiamo parlando  è la Cappella Sansevero. Chiunque sia andato una volta in visita in questo posto è stato preso dall’immaginazione, rapito in storie, allusioni, fantasticherie, vagheggiamenti, appassionanti rapimenti di fantasia. Sfido chiunque a dire, no, non è vero, ho messo piede nella cappella e non mi è interessato più di tanto. Il fascino della cappella è tanto grade che suggerisce fantasticherie quasi immediatamente.
Giacomo ha costruita la storia di questo romanzo pensando alla Cappella. Ma non è solo questo che entra a far parte del percorso da lui suggerito. Non è questo che mi ha in qualche modo colpito. E’ che intorno a questa storia che parte da un cadavere senza testa si diramano percorsi con sforature folli,  dense di informazioni  incredibili. Le informazioni di cui il testo è diffusamente pieno costituiscono una realtà molto interessante. 
Per esempio chi di voi ha mai sentito parlare di “giacchettella a mungelluzzo”?
Chi  ne ha mai sentito parlare? Che vuol dire “quello ha una giacchetta a mungelluzzo”? Io, in 66 anni e qualcosina in più, non ne avevo sentito parlare mai. Vivo a Napoli ma non ne avevo notizia.  Ecco, in questo libro, tra le altre cose, c’è scritto che cos’è una “giacchetta a mongelluzzo”. Non ve lo dico naturalmente. Andatevelo a leggere.  Questo per dire che il percorso fantastico si alimenta di percorsi altri, di derive, più o meno fantastiche e fantasiose.
Giacchetta a mongelluzzo è qualcosa che ha a che fare, stratificato negli anni e che, ripeto, io non sapevo,  con il mondo dello spettacolo. Per questo la mia sorpresa. Vi parlo di questo e non di altre cose che pure sono disseminate lungo il cammino e inciampano nei passi dei personaggi che Giacomo a messo assieme in questa storia.  
E allora questo gioco di scrittura ricco  di informazioni che parte in maniera beffarda, mi permetto di dire, da presenze universitarie che Giacomo dice essere casuali e con nessuna attinenza al mondo reale , ma chiaramente invece  né casuali, né fantastiche si intersecano con tutta una serie  di realtà, di fatti, di nomi, di cose che ci sono familiari, di pubblicazioni. Troviamo, ad esempio, le tracce della Storia della canzone di Napoli di Sebastiano Di Massa, troviamo  tracce delle Strade di Napoli di Gino Doria, che è un piacere ritrovare  tutte insieme. Troviamo la presenza di un quotidiano come “Il Mattino”, la presenza di una libreria come Colonnese a San Pietro a Maiella. 
Allora , leggendo questo libro, ognuno può costruire  il suo percorso visionario. Perché poi tutto sta lì, trasformare  tutto subito in uno spettacolo,  in una rappresentazione. E quindi che rappresentazione ci dà  questo passeggiare  per il Centro Antico dove a Port’Alba si incontra qualcuno, nel Chiostro di Santa Chiara  un professore fa la sua lezione citando  altre verità lontane nel tempo, altri pezzi di storia, trovare il Largo Baracche, prima, durante e dopo, quando e come era il largo Baracche. Incrociare tutte queste verità continue, costanti, questi pezzi di architettura, incrociando queste realtà con storie di spiriti, di fantasmi, fuienti, anime, emozioni, di processioni.
Io ho trovato questo libro in verità anche molto divertente. Naturalmente mi sono esaltato quando il teatro prendeva la mano, conquistava spazio, dilatava la sua presenza  nel racconto che si andava a poco alla volta costruendo intorno a un corpo trovato senza testa nella cappella Sansevero.  Intorno alle storie fantastiche  che in questo centro storico  hanno alimentato da sempre  la fantasia popolare , altri pezzi di teatro,  come la storia degli amori  e della violenza  di Gesualdo da Venosa. E quando poi intorno a questa storia  ritrovo un’altra  storia che mi è molto cara , che è la storia di Questi fantasmi come possibilità di intreccio tra un passato remotissimo  e un passato  che naturalmente è quasi un presente, per me il divertimento è grande e il piacere del lettore si appaga. Io sono contento e ringrazio Giacomo per avermi invitato a dire queste cose semplici ma vere. Grazie." 

lunedì 23 maggio 2011

Il commento al libro di Lorenzo Bartolini Salimbeni

Ho appena finito di leggere il tuo libro e mi sono divertito molto. Alla mia limitata esperienza di lettore del genere sono venute in mente alcune connessioni.
Ho avvertito echi di Andrea Camilleri: non tanto per la trama poliziesca, quanto per la dignità conferita nel testo alle espressioni dialettali (pardon, tutti sanno che il napoletano è una lingua, non un dialetto!) Di Luciano De Crescenzo, per l'arguzia e la caratterizzazione dei personaggi. Di Umberto Eco, per la complessità della vicenda, le digressioni colte e i colpi di scena. Il professor Giuliano De Luca mi è sembrato il discendente diretto di Guglielmo di Baskerville, e l'incendio del laboratorio informatico non poteva non richiamare quello dello scriptorium dell'abbazia.
Quello che c'è in più - e che mi pare anche esplicitato nel sottotitolo del libro - è il ruolo della città di Napoli e soprattutto di parte del suo centro antico, che è il vero protagonista. E qui mi sembra di individuare non un limite, ma una condizione del libro. Secondo me per gustarlo appieno bisogna conoscere la città, o almeno esserci stati più di una volta. Ricordo la mia scoperta di Napoli nel lontano 1969, quando appena laureato (ma senza essere mai stato più a sud di Roma) mi trovai a fare il servizio militare nell'Accademia Aeronautica di Pozzuoli, e passavo i pomeriggi di libera uscita infilandomi affascinato nei vicoli dei quartieri spagnoli, protetto dalla mia divisa di allievo. Scopersi fra l'altro la cappella Sansevero, che allora era aperta raramente e non si pagava il biglietto. Solo più tardi il mio rapporto con la città si sarebbe consolidato con l'incontro di Renata, mia moglie.
Per finire, mi hanno molto divertito gli accenni all'università, di cui fai una caricatura impietosa e ahimè in parte realistica. Certe situazioni noi possiamo capirle meglio di altri. E la precisazione finale, in cui dipingi l'ateneo napoletano come il migliore dei mondi possibili, mi è sembrato il tratto più ferocemente ironico di tutto il libro!
Insomma molte congratulazioni, e scusa questo commento un po' pedante. Auguri per il successo del volume, e speriamo prima o poi di ritrovarci a mangiare una sfogliatella da Scaturchio.
Cari saluti,
Lorenzo"

La trama

Il cadavere di un uomo, nudo e senza testa, viene trovato nella cappella Sansevero. Lo scopre Don Arturo, il custode che ha la solita visita guidata di turiste straniere di mezz'età.
La voce che nella Cappella del principe Raimondo di Sangro sia avvenuto un orrendo delitto si diffonde rapidamente per la città di Napoli.
Sferragliare di catene, carri invisibili che attraversano i sotterranei degli antichi palazzi, ombre che svaniscono, fuochi evanescenti, tutto fa credere che lontani spettri e sepolte paure siano nuovamente tornati alla luce.
Il finale è sorprendente e in aspettato, ma anche razionale, frutto del calcolo di chi, nascosto nell'ombra, tenta di trarre la sua convenienza economica basandosi sulle antiche paure popolari.