pietre

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Pietre di Fuoco - noir napoletano di Giacomo Ricci - Neftasia editore 2011

sabato 25 giugno 2011

Presentazione a Maiori di Pietre di fuoco

Martedì 28 giugno alle ore 21.00, presentazione di Pietre di Fuoco a Maiori, Anfiteatro Lungomare Amendola.

Maiori, lungomare Amendola

lunedì 13 giugno 2011

Questi fantasmi: Carmela, a' sorella do' guardaporte


Eduardo e Carmela

La chiesa di San Domenico maggiore


Dal canale di minuicch, uno splendido video sulla chiesa di San Domenico Maggiore
il canale di minuicch è un sito interamente dedicato alla bellezza e al suo culto. Non a caso si apre con una frase formidabile di Fedor Dostoewsky:


"La Bellezza salverà il mondo"


Non possiamo fare altro che sottoscrivere e sperare che l'affermazione dello scrittore russo sia veramente profetica. 
Vale la pena visitare il canale di minuicch per le straordinarie scoperte che si possono fare:


http://www.youtube.com/user/minuicch




Gesualdo da Venosa - La morte di Maria d'Avalos



Un bellissimo video su Gesualdo da Venosa, la Morte di Maria d'Avalos, la drammaticità profonda di una condizione esistenziale tragica espressa nella musica

Pietre di Fuoco: i materiali- l'aula di Fisica della Federico II




di Giacomo Ricci





Voglio iniziare  raccontandovi una storia, ma non d’invenzione. Una storia vera e, credo,  leggera. Tanti anni fa c’era uno studente del primo anno della Facoltà di Ingegneria di Napoli, testimone oculare del breve racconto che mi accingo a fare. Non so bene come siano, oggi,  organizzati gli studi di ingegneria, dopo gli sconquassi introdotti con le lauree triennali, il tre più due, ecc. Al tempo della nostra storia gli studi di Ingegneria erano strutturati in un corso di laurea che si potrebbe definire, con termini odierni, un “due più tre”, un biennio (questo sì, a tutti gli effetti  generalista, comune a tutti i corsi di laurea  di ingegneria) e un triennio specializzato che definiva e finiva il percorso di studi. Così diventavi ingegnere chimico, meccanico, edile, elettrotecnico, “stradino”  e così via. Il nostro allievo aveva scelto di seguire il corso di ingegneria elettronica e, come tutti gli altri allievi ingegneri al primo anno, divideva con  gli studenti della  Facoltà di  Scienze, i corsi di matematica, fisica e un esame  di chimica generale. 

Ma entriamo nel vivo della storia. 

Dovete immaginarvi l’aula di fisica della Federico II di Napoli. 

Il progetto del corpo centrale dell’Università,  che si trova tra il corso Umberto e via Mezzocannone,  lo si deve all’ingegnere Guglielmo  Melisurgo che lo fece insieme a Pierpaolo Quaglia. Grande personaggio Melisurgo, ingegnere del Comune di Napoli, famoso soprattutto per essere stato il primo “intellettuale” a immergersi, insieme ai fognaroli e i “pozzari”, nel sottosuolo di Napoli e tracciarne una planimetria dettagliatissima, che misteriosamente non è stata più trovata negli archivi storici dell’ufficio comunale
L’ingegnere,  tra l’altro,  fu anche l’autore del  progetto della facciata neoclassica e del corpo principale dell’Università di Napoli. Appena si entra da corso Umberto,   salita la breve gradinata sulla strada, dopo aver attraversato un atrio di grandi proporzioni nel quale confluiscono la grande scala che porta al rettorato e i due ampi corridoi a destra e sinistra che ospitano la facoltà di giurisprudenza e le aule,  passata la  gigantesca statua di Federico II che se ne sta sulla parete opposta all’ingresso,  si giunge nel grande cortile interno.  Questo è diviso  in due ampie corti,  specularmente uguali, da un imponente scalone centrale scoperto che conduce al primo piano, sul fondo della corte,  dove c’è una statua di Minerva, dea della saggezza e della sapienza. Da qui il nome di “scalone della Minerva”.  Ai due lati dello scalone due volumi simmetrici,  a pianta centrale poligonale, alloggiano, l’una dirimpetto all’altra,  due grandi aule a cavea, una di Chimica e l’altra di Fisica. Sono, a mio parere, le aule più significative, imponenti e belle (passatemi, benché desueto,  il termine) di tutto l’ateneo napoletano, anche delle più recenti realizzazioni in località Montesantangelo dedicate proprio alla Facoltà di Scienze e, un po’ più indietro negli anni,  dell’edificio del Politecnico progettato da Luigi Cosenza in piazzale Tecchio. 
Non so spiegarvelo con esattezza, ma l’aria, anzi, l’ “aura” che avvolge le due aule, l’atmosfera che creano con le rifiniture in legno, la loro forma “classica” da teatro greco, le cavee a emiciclo molto ripide con scanni e banchi continui curvi, ne fanno luoghi non solo degni di un’Università, ma elementi in qualche modo archetipici degli studi universitari, quelli che  trasformano  un luogo in  un’Università e non altro e  si legano, nel nostro inconscio, all’idea che sempre ci siamo fatti di un edificio  nel quale s’insegna il sapere. Nello spazio in basso, al posto del coro e della scena del teatro greco c’è  la lunga cattedra che va da un capo all’altro dello spazio disponibile. Le lavagne lungo tutto il muro, i due altissimi finestroni ai lati, la porta dalla quale entra il docente, tutto è pensato per far sì che la lezione sia una vera e propria rappresentazione spettacolare, una celebrazione, semplice e imponente allo stesso tempo,  dell’atto di sapienza, della dotta orazione del professore. 
Un allievo alle prime armi è certamente impressionato da tutto ciò, viene rapito in quest’atmosfera, si sente piccolo  e un po’ intimorito, ha la sensazione di vivere un’esperienza complessa, importante della sua vita. Dimentica di colpo il liceo e la sua aria, per così dire, “familiare”. Si rende conto, all’improvviso, di essere entrato ufficialmente nel mondo  del Sapere. 
Immaginate il nostro studente, seduto con gli altri in attesa della prima lezione di fisica sperimentale. Guarda con occhi straniti gli strumenti che sono disposti in bell’ordine sul lunghissimo piano della cattedra, il tubo sottovuoto dove vedrà per la prima volta, come si trattasse di un incantesimo, correre una piuma e una pallina di piombo alla stessa velocità verso il basso; in quell’aula  assisterà agli esperimenti di ottica, e vivrà la scomposizione di un raggio luminoso nei tanti colori dell’iride mentre passa attraverso un prisma, un cristallo trasparente e sfaccettato. 

Ed ecco il professore. 

E’ entrato, come il luogo richiede, con  gesto  teatrale,  scostando la pesante tenda di velluto che copre l’ingresso, e subito ha alzato lo sguardo in giro alla fila centrale della cavea mentre l’aula esplode per gli applausi. 
E sì. Ai tempi del nostro studente le lezioni si aprivano sempre con un lungo applauso diretto al professore del quale si salutava la fama, il destino, la storia. E lui si aspettava quest’applauso. Lo sosteneva proprio alla maniera di primo attore, capocomico che fa il suo ingresso in scena e parte l’applauso, magari guidato dal capoclac che rompe l’aria con il suo battito di mani deciso, imperioso, diretto soprattutto a convincere gli altri della clac più timidi, tirandosi  appresso   tutto il pubblico.
Poi le sue parole, che a poco a poco prendevano l’aria, leggere piume o farfalle che  salivano, come su un fresco alito di vento,  lungo la grande cavea, passando proprio un po’ al di sopra delle teste degli allievi. Questi, prima un po’ attoniti,  erano, poi, man mano presi dalla dialettica, dalle battute, dai cenni fugaci, dalle rapide incursioni in campi paralleli che lui invadeva con rapidissimi azzardi, sortite repentine e fugaci, appena accennate,  per poi tornare subito in argomento. Sprazzi di mondi, lampi improvvisi che accendevano la fantasia dell’uditorio, che alludevano, con maestria,  ad altro, che facevano intuire, supporre, pensare, suggestionando, suggerendo, aprendo porte su prospettive diverse per poi subito socchiuderne la vista. Metafore subitanee, parole sospese, tratti interrotti, schizzati con impressionante velocità. 
Lui, il professore, mentre parlava teneva la mano nel fianco, la giacca doppiopetto aperta e la camicia sparata di bianco con una cravatta azzurra lucida,  e preso dal discorso, che a poco alla volta l’infervorava, si levava gli occhiali e li passava da una mano all’altra. E  gli occhiali di volta in volta diventavano matita per tracciare immaginari grafici nello spazio o magica bacchetta evocatrice di mondi, sfere, pianeti e forze invisibili. Poi, rigirandosi rapido, s’avviava veloce verso la lavagna e, impadronitosi di un gessetto, tracciava grafici e schemi, disegnando una bottiglia, o una pila o richiamando brevi formule e equazioni. 
Ferrante d'Aragona, così chiamerò il professore,  era molto vanitoso e, diciamolo pure, un po’ supponente. Ma poteva ben permetterselo, sia per la sua tenuta di scena sia perché direttore dell’Istituto di Fisica della Federico II. E  faceva presto a informare, con le lapidarie parole che riporto, l’uditorio che:
«Tre sono i grandi fisici al mondo. Uno è Einstein, l’eccelso.  Il secondo è un italiano,  il grande Enrico Fermi e il terzo non lo nomino ... per modestia». 
A questo punto l’aula, letteralmente, se ne “cadeva” per gli applausi. Uso questa parola ricordando proprio Eduardo che, in Sik Sik l’artefice magico, ripete più volte, all’incredulo Ugo D’Alessio, aspirante “compare”, che  fa eco a pappagallo, poco convinto,  «E a chistu punto se ne care o’ teatro». 
Avrete ormai capito che quell’allievo alle prime armi con gli studi universitari ero io, giovane di diciott’anni. Ho vivissimo il ricordo di quelle lezioni. E ricordo che, a poco alla volta, ci abituavamo all’atmosfera, alle battute di Partelli, alle sue, per così dire, “intemperanze” e le sue - mi perdonerà dall’altro mondo ma lo dico con sincero  affetto e caro ricordo - “smargiassate”, le sue dimostrazioni a “sorpresa” proprio come un prestigiatore che riesce nel suo numero a impressionare l’uditorio. Così  le leggi della fisica scorrevano sotto i nostri occhi, illustrate dai suoi  esperimenti che avevano del mirabolante e, quasi sempre,  riuscivano perfettamente. Quasi sempre perché qualche volta il destino dispettoso comunque ci metteva la sua e qualcosa non andava proprio per il verso giusto e l’esperienza, come si dice a Napoli, faceva “fetecchia”. In questi casi Ferrante d'Aragona non si perdeva d’animo ma riprendeva di buona lena l’esperienza, non senza, però, aver lanciato un’occhiataccia a Mario, il suo tecnico assistente. Era senza dubbio sua la colpa che le cose non fossero andate per il verso giusto. Almeno così noi capivamo. 
La faccia di Mario era un programma, imperturbabile come una sfinge dai grandi baffoni neri, alla Groucho Marx, al quale sorprendentemente assomigliava, che ne nascondevano il labbro superiore ma, mentre io sempre rintanato nelle ultime file di posti, in alto, quasi vicino all’uscita,  non riuscivo a vederlo per la distanza, quelli più “secchioni”  sempre in prima fila,  giuravano di aver visto passare   nei suoi occhi un bagliore tra lo sfastidio e l’odio, come se dicesse «Ma tu vire a chisto. Ah,  Maronna mia,  ma tu vire, pe’ campa’, che pacienza ca nce vo’...».

Venne poi, come ho già ricordato, la stagione degli esperimenti di ottica che, come tutti sanno, per essere visibili, si devono fare al buio. Venne il turno della polarizzazione della luce, della scomposizione, della rifrazione. Navigavamo da qualche lezione, per così dire, al buio, illuminati da guizzi  e bagliori  improvvisi che mostravano come la luce seguisse bizzarrie che non avremmo mai sospettato. Tra applausi a scena aperta o i gridolini meravigliati delle giovani colleghe di scienze, o gli “oohhh!” di prolungata meraviglia degli allievi dell’accademia militare di Pozzuoli, cadetti-studenti in ingegneria aeronautica, Ferrante e Mario-Groucho, nel suo ineffabile camice nero,  ci conducevano per mano in quel giro illusionistico sull’ottica e le sue mirabolanti acrobazie da laboratorio.  
Fu durante  una di queste dimostrazioni che accadde il fatto. 
S’era spenta la luce centrale dell’aula e quelle sui due lati, tirate le pesanti tende dei due altissimi finestroni e ottenuto il buio pesto consueto necessario all’esperimento. Mario, sapientemente aveva messo tutto in ordine, sotto lo sguardo vigile e severo di Partelli, un prisma, un fascio di luce polarizzata che si sarebbe dovuto accendere nel buio al momento opportuno, qualche lente amplificatrice, opportunamente inclinata, distribuita  lungo il percorso del raggio luminoso. Nel silenzio che precedeva l’esperimento, nel buio della sala, tutti con il fiato sospeso per la suspence ...
Accade all’improvviso.  
L’irreparabile, l’incredibile: un suono irriverente, scostumato, arrogante, sfottitorio, anarchico, destabilizzante, terroristico, assurdo, preceduto da un:
«Ferrante , Ferrante d'Aragona, professore, grande fisicoooo ....». 
Il pernacchio più sguaiato, scioccante, voluminoso, potente che  abbia mai sentita in vita mia. L’ignoto sfottitore, inghiottito nel buio dell’aula, zeppa di studenti aggrappati a tutti i posti disponibili e in piedi sul fondo in alto,   da vero maestro aveva interpretato con magistero lo sberleffo più famoso di Napoli fin dall’antichità proprio  come ce lo racconta e insegna Eduardo nel famoso episodio  de L’oro di Napoli. Chi aveva fatto quel pernacchio, pensai subito, s’era allenato lungamente e duramente, con l’obiettivo di inchiodare il nostro, il suo professore. 
Seguì un attimo glaciale, ammutolito, incredulo. Poi s’accese la luce. Tutti noi , nel buio, eravamo scoppiati a ridere. Ma lo sguardo fisso, allibito, attonito di Ferrante ci gelò il sangue nelle vene. Il poveruomo non riusciva a parlare. S’era fatto paonazzo,  come uno che vede crollare l’Empire State Building o un’improvvisa eruzione del Vesuvio rovinargli addosso tragicamente. Non credeva ai suoi occhi, anzi, alle sue orecchie. Sbiancò e si fece rosso in un attimo. Urlò con quanto fiato aveva in gola:
«Chi mai è stato  questo ... ribaldo!».
Poi, senza pensarci su, era uscito furente dall’aula, sbattendo con violenza la tenda dietro di sé. 
Le ore e i giorni che seguirono furono concitati, frenetici. Gruppi di studenti si recavano in missione diplomatica verso lo studio di Ferrante d'Aragona nell’Istituto di Fisica.  Ci volle il bello e il buono per farsi ricevere. Dopo ore di contrattazione con la segretaria e un avamposto di bidelli e uscieri, si riuscì ad avere udienza presso il prof incazzatissimo. Ci vollero le scuse di tutti noi per convincerlo a fare lezione la volta successiva e  l’assicurazione che l’ignoto delinquente profanatore  sarebbe stato al più presto individuato. Ma, soprattutto, più che l’atto di contrizione di noi studenti, doveva aver agito l’invito del Rettore, prontamente informato del goliardico sgarro, a lasciar correre, di non dare eccessiva importanza alla cosa per non rendersi ridicolo e rendere ridicola, soprattutto, tutta l’Università. 
Vuoi come non vuoi, giungemmo alla lezione successiva. 
Tralascio tutte le premesse. Dico solo che la lezione riprese da dove era stata interrotta. 
Siamo, quindi, ancora una volta un attimo prima che la luce si spenga e l’esperimento parta. Si spegne la luce. Intravediamo a malapena Mario che, nel fioco tremore  di una candelina in un alambicco di lato,  fa gli ultimi preparativi. Ferrante non si vede perché tutto il resto dell’aula è nel buio più fitto. 
Puntuale, come tutti un po’ si aspettavano,  la voce a squarciagola nel buio. 
«Ferrante d'Aragonaaa, Ferrante professore, grande fisicoooo ....». 
E, subito dopo, il  rumore assordante, violento del pernacchio più squillante mai udito. Se possibile mi sembrò più forte della prima.  
L’oscuro attentatore ci aveva provato di nuovo, assolutamente sprezzante delle minacce del professore. 
Stavolta nessuno rise. Giaccio. Un attimo lungo quanto un secolo. Un lampo illuminò il buio. 
Non riuscivo a capire che cosa fosse successo. Mario accese la luce centrale. Ferrante aveva nelle mai una macchina fotografica da cronista con un flash potente. Svitò con lenta cattiveria la lampadina.
Si guardò in giro. Un ghigno maligno gli segnò le labbra sottili. 
«I colpevoli sono qua dentro» disse lentamente, con voce misurata, vendicativa, crudele. «Ci rivedremo agli esami».  Lanciò platealmente sulla cattedra la lampadina bruciata e girò le spalle, abbandonando con sdegno l’aula.  
Sarà come sarà, mentre usciva incazzatissimo partì un applauso da “se ne care o’ teatro” che durò per cinque minuti. Ma Partelli non uscì a ringraziare. 
Il colpevole non fu mai trovato e l’episodio non si ripeté più. Agli esami non vi furono rappresaglie. Anzi Ferrante si mostrò particolarmente disponibile con tutti noi. 
Alcuni dicono che l’irriverente suono non fosse prodotto da un essere umano, ma dallo “spirito” dell’aula che si vendicava perché insofferente di vedere, a ripetizione, sempre le stesse cose. Girarono voci su munacielliBelle Mbriane, fantasmi di studenti morti. L’immaginazione si scatenò. Tanto che se non fossi stato tra i testimoni oculari, anch’io sarei portato a credere che si sia trattato di una delle tante leggende metropolitane che girano per la città. Ma io so, perché c’ero,   che il colpevole ancora se la  ride da qualche parte.
Qualcuno ha pensato che si trattasse di un fenomeno di anticipazione della stagione del ’68 che sarebbe scoppiata di lì a qualche anno. Ma, ovviamente, si tratta di fantasticherie senza alcun reale fondamento. 
A corredo della storia voglio ricordare una mia recentissima delusione. Sono andato, qualche mese fa, a Napoli, all’Università centrale. Avevo con me la mia macchinetta digitale e andavo fotografando, per le ragioni che chiarirò più avanti, una serie di materiali visivi che avevano a che fare con il progetto che voglio qui illustrare. Nei materiali rientravano anche le immagini dell’aula di fisica che ho molto ben chiara nella memoria perché è un luogo che ricorre frequentemente nella mia storia e il mio legame  profondo con l’ateneo napoletano. Ma quale fu il mio dispiacere nel vedere l’aula chiusa agli studenti, trasformata, per così dire, in monumento, perché venuta meno la sua funzione. Così mi disse l’usciere all’ingresso quando chiesi perché la coppia di aule a cavea fosse chiusa al pubblico.
«Da quando la facoltà di Scienze si è trasferita a Montesantangelo»,  mi disse con un sorriso tra il complice e lo sconsolato, «le due aule hanno perduto la loro funzione quotidiana e vengono usate solo su richiesta di alcuni professori e riservate a importanti occasioni  accademiche».
Sì, anche lui, in qualche modo, avvertiva qualcosa di storto in questa decisione. Come se, cancellando una delle funzioni principali del corpo storico dell’Università di Napoli, se  fosse stato amputato, a crudo, un arto,  non si sa bene perché e da chi. 
Come ho detto le due aule sono state trasformate in monumenti, “mummificate” per così dire.  Forse si tratta di riconoscerne il valore storico e la funzione, ma, secondo me e il custode, si trattava anche della loro fine. Riflettendoci, si tratta, comunque, della fine di un modo di fare l’Università che, nel bene e nel male, ha rappresentato un’epoca, un modus vivendi, un sistema di valori. Malinconie di vecchi, taglierà corto qualcuno. Forse ma su questi cambiamenti sono sempre necessarie opportune riflessioni. 
Io sono sempre molto preoccupato quando si verificano mutazioni così radicali. Sono convinto di sapere quello che perdo ma non sono assolutamente certo di quello che avrò e se ciò che avrò sarà meglio di ciò che ho perduto. 
E’ una sensazione generale che non mi abbandona da qualche tempo. Le due aule mummificate sono una sorta di metafora dei cambiamenti radicali delle nostre università pubbliche, la loro definitiva fine. Qualcuno manovra, e nemmeno tanto all’oscuro, perché il mondo accademico antico - ritenuto tout court una zavorra inutile e farraginosa - se ne vada allegramente in frantumi o, peggio, mestamente in soffitta. 
Nel mondo universitario qualsiasi “innovazione” è stata sempre un maleficio, in un vero e proprio accanimento della cattiva sorte (o forse potremmo dire della cattiva volontà), un peggioramento - sempre notevole e in qualche modo devastante - degli antichi equilibri sostituiti da un “nuovo” assolutamente mai all’altezza del mondo al quale si rinunciava. Così è stato nel 1969 con la democratica liberalizzazione degli accessi, così con tutte le leggi successive, così con l’introduzione dei “crediti” che, di fatto, hanno vanificato la valutazione di merito degli studenti, così con le lauree triennali che non servono a nessuno e non hanno mercato, anzi hanno un effetto di drogare e intasare il già collassato mondo del lavoro, e così via. 
Tornando a Ferrante d'Aragona e al suo modo antico di fare lezione, la scenografia, l’applauso, il ruolo teatrale, quasi da avanspettacolo,  del docente, l’apparecchiatura che in qualche modo agiva direttamente e inconsciamente sull’immaginario di ognuno di noi studenti, tutto è stato gettato via. Certo: si dirà che era un impianto retorico illusorio e sostanzialmente sovrabbondante, una superfetazione, una degenerazione della mitologia accademica. Ma un ruolo importante l’aveva. Se non altro quello di mantenere in piedi l’ “aura” della funzione universitaria. 
Ricordo con Ferrante (che come avete capito è un nome inesistente, per una mia volontà di protezione dell’antico professore del quale ho un caro ricordo e affetto sincero) altri professori in grado di fare scena: Roberto Pane, per molti versi Giulio De Luca, Nicola Pagliara e la sua fortissima verve teatrale, istrionica, colta e scenica. E molti  altri ancora. Era un modo di fare università, un linguaggio, un insieme armonioso e architettato di segni fortemente funzionalizzati alla resa proprio dell’ “aura”, alla costruzione mitologica del mondo universitario. Un mondo che io credo avesse un suo profondo significato e un effetto assai positivo su noi studenti. Non fa nulla che di alcuni professori si costruiva il mito. Era proprio il mito, insomma,  oltre la loro capacità, a essere fondamentale nella nostra preparazione scientifica o, meglio, nella stimolazione delle nostre capacità di apprendimento. 

sabato 11 giugno 2011

Il Centro Antico di Napoli : decumano centrale



Continua la nostra visita virtuale al Centro Antico di Napoli. Un breve video su via Tribunali e dintorni

Intervento di Giacomo Ricci al Salotto Letterario di Mario Scippa


Il Salotto Letteraio Antichità Scippa è ormai una presenza culturale nel panorama urbano di Napoli
Per avere una visione dell'attività svolta vai al link:

http://www.facebook.com/group.php?gid=348071995475

Il Centro Antico: planimetria interattiva

Il link sotto porta ad una cartografia interattiva del Centro Antico di Napoli mediante la quale è possibile approfondire la conoscenza del tessuto urbano e di alcuni monumenti più importanti. 
Per interagire con la mappa è sufficiente cliccare sul link e, una volta nella pagina usare il tasto destro del mouse per ingrandire (zoom) e quello desto per spostarsi  (pan), come suggerisce la manina che appare sullo schermo. Si può ripetere l'operazione più volte fino ad ingrandire in una scala di dettaglio molto ravvicinata.L'esperienza è molto divertente. Basta seguire le indicazioni che sono fornite nella finestra pop-up. 
I link presenti nella planimetria sono segnati da quadratini rossi (che portano alle schede di Wikipedia) o dall'icona di una camera (che porta a filmati immagazzinati su youtube).
Buona navigazione


Il Centro Antico di Napoli - il decumano inferiore


Una passeggiata per Via Benedetto Croce, decumano inferiore del Centro Antico di Napoli

venerdì 10 giugno 2011

mercoledì 8 giugno 2011

Te si miso 'sta giacchettella a' mungelluzzo?

di Giacomo Ricci


Me l'ero sempre chiesto che volesse significare. Espressione antica, usata da mia nonna e, poi, da mia madre. Quando vedevano qualcuno con una giacchetta risicata, striminzita, con le maniche troppo corte, i fianchi troppo stretti, che saliva al di sopra della vita, se ne uscivano con l'espressione "Te si misa chesta giacchettella a' mungelluzzo?". Come tante espressioni popolar-dialettali di uso consueto, finiamo per farne uso per una vita senza porci tante domande. Poi capita, un giorno, di chiedersi da dove mai sarà sbucata fuori quell'espressione? E' la curiosità di sapere l'aneddoto, il fatto che nasconde. 


Giovanni Mongelluzzo

Sfogliando il libro di Sebastiano di Massa Storia della canzone napoletana ho trovato questa foto di Giovanni Mongelluzzo, attore di avanspettacolo e varietà ed ecco spiegata l'espressione. Giovanni usava giacchette risicate e un po' logore, per suscitare il riso. Così come fa, nell'altra foto, Peppino Villani. 


Peppino Villani

Un'abitudine che si è poi trasmessa fino ai tempi nostri. Penso a Nino Taranto, Vittorio Marsiglia e tanti altri.

Ricette gustose tra le pietre di fuoco

di Raffaele Ruggiero


Il 18 maggio 2011 c’ero anch’io alla presentazione di Pietre di Fuoco. Non ero informato adeguatamente, ma il titolo, l’autore e la mia naturale tendenza alla semplificazione non mi lasciavano dubbi: «si tratterà di un saggio sull’architettura, speriamo che mi faccia riconciliare con quella contemporanea, che per me è solo munnezza!».
Di proposito ho ignorato il libro già disponibile sull’espositore, mi sono accomodato e ho ascoltato. No, non era un saggio, ma un giallo ambientato nel centro antico di Napoli, con qualche puntatina verso i Quartieri spagnoli. Mi sono divertito moltissimo, ma in fondo me l’aspettavo, perché ho sempre pensato che Giacomo Ricci fosse un raffinato e ironico divulgatore della cultura “rotonda” e, nella circostanza, i suoi complici non sono stati da meno, proponendo con salottiera disinvoltura seducenti frammenti della storia e una nitida radiografia dell’autore. Non entro nel merito, perché tutto quel pomeriggio è raccontato in questo blog. Peccato per coloro che non c’erano, perché guardare un film non equivale a leggerne la sceneggiatura. A meno che del film non sia proprio Giacomo Ricci a parlare.
Per spiegarmi meglio, “devo divagare” e proporre un “intermezzo per il gentile lettore”.
Una mattina, verso la metà degli anni Ottanta, mi trovavo con Giacomo in uno dei box dell’Istituto di Composizione della facoltà di Architettura. Quel giorno i ricercatori si astenevano dallo svolgimento dell’attività didattica e, per solidarietà, mi astenevo anch’io, che ero un semplice cultore della materia e non sono mai diventato qualcosa di più. Giacomo aprì il giornale ed esclamò: «è morto Tarkovskij!». Io replicai, dall’alto della mia crassa ignoranza: «e chi è?». Così, soffocando generosamente la sua indignazione, mi spiegò chi fosse Tarkovskij e mi “fece vedere” il film Andrej Rublev, semplicemente raccontandolo. Ne conservo un ricordo molto più nitido di tanti film che ho visto realmente.
Scusandomi per il siparietto, ritorno a Pietre di Fuoco. Naturalmente ho letto il libro, che già nel sottotitolo, Saggio sul centro antico di Napoli, è fuorviante. Intendiamoci, non voglio dire che il sottotitolo sia bugiardo, ma soltanto che c’è un trucco. È un giallo, ma è scritto con la tecnica e i riferimenti tipici del saggio. Non è sul centro antico di Napoli, ma vi è ambientato. La storia è intrigante da seguire, con un finale sorprendente ma, in verità, assai poco intuibile. Al lettore che abbia per lo scenario ambientale e per il mondo accademico la stessa familiarità dell’autore bastano pochi cenni e qualche allusione sfumata per dischiudere un’infinita varietà di suggestioni che permettono di aggiungere al racconto “aperto” altre immagini, altri episodi, altri ricordi della mamma, della nonna, di Eduardo, di Totò e delle tradizioni popolari. I ringraziamenti finali, sui quali si è molto spettegolato, mi hanno ricordato lo sfizio che si tolse Michelangelo immortalando Pietro Aretino come San Bartolomeo e se stesso come una pelle umana, svuotata di carne e ossa.
La lettura ha appagato il mio particolare piacere di conversare con i libri, ai quali faccio domande, dai quali esigo risposte e varietà di argomenti, che preferisco chiamare “sapori”. Quei sapori che qui sono contaminati e amalgamati senza perdere la loro originaria connotazione. Chi conosce Giacomo Ricci sa bene che questo è il suo modo di essere, di operare, di comunicare, di insegnare. Io non lo conosco abbastanza da sapere dei suoi gusti gastronomici, né delle sue abilità di chef..
Però, mi piacerebbe che scrivesse un libro di ricette!

lunedì 6 giugno 2011

Le pietre di fuoco del Centro Antico di Napoli

di Giacomo Ricci

Pietre di fuoco è titolo suggestivo. Per la lettera del significato e per le metafore che suggerisce. Io, quando l’ho scelto, ho pensato, soprattutto, alla lettera, al significato fisico-geologico della parola “fuoco”. Pietre di fuoco sono quelle vulcaniche che fanno lo scheletro di Napoli. Napoli è città di fuoco perchè è nata sotto un vulcano tra i più inaffidabili che la sorte ci potesse riservare. Basalti, piperni, graniti sono le pietre degli esterni del Centro Antico napoletano, delle strade, dei rivestimenti, dei cornicioni, dei basamenti, dei portali, delle decorazioni. Le facce, i mascheroni, i festoni, gli addobbi, sono tutti scolpiti nel piperno. I balconi, le soglie, gli stipiti delle finestre. In tutte le variazioni di colori, dal grigio scuro al nero antracite. 
Proprio come le pietre del Vesuvio. 
E poi quella splendida pietra tipica della Campania, ma in particolare del napoletano, che è il tufo. 
Pietra di fuoco anch’essa anche se più dinamica: roccia piroclastica che, letteralmente vuol dire, rotta dal fuoco. Le rocce piroclastiche sono dovute alla sedimentazioni di frammenti vulcanici, del loro depositarsi, dall’aria in cui sono lanciati da grande velocità e altezza dal vulcano incazzato, a terra, cementandosi, poi, in grandi blocchi monolitici con il passare del tempo, dei secoli, dei millenni, delle ere. 
Una città di fuoco, dunque, per sua natura. Una città di fuoco, scavata da sotto e eretta sul vuoto delle caverne maestose che traforano la terra su cui poggia. 
Una città che è una specie di labirinto-termitaio, fatta di frammenti incandescenti che si sono raffreddati.
Da questa base fisico-geologica nasce un coacervo di suggestioni che si trasformano, immediatamente, in metafore, in operazioni linguistiche che servono a raccontare lo spirito, l’inconscio, il sostrato di pensieri che attraversano il popolo che ha abitato questi luoghi da sempre. 
Una città che non smette di suggestionare la fantasia e accendere, per così dire, sentimenti e passioni. 

La pudicizia


di Rossana Di Poce


"La Pudicizia", Cappella San Severo, Antonio Corradini (1752).Con il più famoso Cristo Velato e il Disinganno, la Pudicizia forma una triade di pietra. Raimondo di Sangro, il "principe riauvulo" ferma nel marmo la madre Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, morta il 26 dicembre 1710: Raimondo aveva un anno allora. Ricordo massonico della Iside velata, allegoria della Sapienza, madre mai conosciuta, una pudicizia velata di poco e rose sul grembo.Una vera pietra infuocata.Vi aspettiamo al Salolotto Letterario Antichità Scippa, mercoledì 8, ore 18.30 con "Pietre di fuoco" di Giacomo Ricci.

sabato 4 giugno 2011

Salotto Letterario Antichità di Mario Scippa

con
Rodolfo Napoli
Rossana Di Poce
Mario Scippa
Salotto Letterario Antichità Mario Scippa
via Vannella Gaetani, 20
giovedì, 9 giugno 2011


di Mario Scippa

PIETRE DI FUOCO o parole di fuoco quando raccontano di fatti che sembrano essere conosciuti da tutti, ma rivelati da pochi. Come quelli della baronia universitaria che gestisce le cattedre e quindi la trasmissione del sapere.
Parole che diventano di fuoco quando illuminano quei vicoli dei quartieri, dove la luce fa fatica ad arrivare fino al selciato, luoghi dove non si è mai voluto affrontare seriamente una politica di trasformazione urbana che mirasse ad una vera riqualificazione, anche con interventi radicali sul territorio, con coraggio e determinazione, con l'obbiettivo ultimo quello del miglioramento della qualità della vita di quei posti; diventano di fuoco quando disegnano il ritratto del femminiello, deriso e cercato da tutti, e che nell'immaginario delle persone cosiddette “perbene” incarna il male.

Elementi della storia. GiovanBattista Lusieri Vista di Napoli

GiovanBattista Lusieri, Veduta di Napoli dalla casa degli Hamilton

di Giacomo Ricci

GiovanBattista Lusieri fu straordinario interprete di Napoli e della sua bellezza. L'acquerello sopra raffigurato è uno dei più belli che abbia prodotto. Su quest'immagine il protagonista di Pietre di Fuoco, il proessor Giuliano De Luca tiene una singolare lezione ai suoi allievi nel chiostro di Santa Chiara.  Il senso della sua lezione è quello di rintracciare Napoli come paradiso perduto, immagine svanita, luogo della memoria. Vale la pena leggere direttamente il brano del libro.

"Giuliano aveva aperto la lezione mostrando il bellissimo acquerello di Giovan Battista Lusieri che raffigurava la veduta di Napoli da casa di Sir William Hamilton. Lusieri aveva esegui­to quell’acquerello nel 1791 e Giuliano si sta­va soffermando sulle particolarità dell’opera del pittore italiano non solo nel suo significato artistico, per così dire, ma anche nell’essere documento iconografico che fungeva da sup­porto al Gran Tour, degli intellettuali europei alla scoperta del Sud d’Italia.
La precisione della rappresentazione era straordinaria perché Don Titta, così era chia­mato Lusieri dagli amici più intimi, in compa­gnia di altri pittori, si dedicava con particolare attenzione al disegno dal vero secondo le esi­genze della moda e le richieste della commit­tenza. Spesso Don Titta era a casa degli Hamil­ton e lì tracciava rapidi schizzi acquerellati dei frequentatori del salotto, perlopiù inglesi, che avrebbe poi inserito come figure, macchiette nei suoi disegni definitivi. 
Il suo metodo, però, era sì realistico e in gra­do di restituire un’immagine veritiera, dettagliat­a, affidabile e documentaria del mondo reale, tanto da fare da supporto ai diari di viaggio e agli studi letterari che servivano da guida ai nordici alla scoperta dell’Italia, ma, secondo Giuliano, la sua era molto più che una descri­zione empirica dell’ambiente.
In quei colori, in quella luce diffusa e iperrea­lista che si spandeva sugli oggetti, e faceva vi­brare gli edifici, si leggeva un’ansia irreale tut­ta moder­na, assolutamente estranea allo spi­rito sette­centesco, confinante con l’aura rare­fatta della più pura metafisica, una sorta d’in­cosciente anticipazione dell’inquietudine metropolitana più recente che, per contrasto, andava al fon­do delle cose e del loro significa­to. Che sti­molava la nostra immaginazione e ci forniva, di quella Napoli idealizzata, una visio­ne asso­lutamente e irrimediabilmente arche­tipica. 
La lunga lingua di terra di Posillipo che, sulla destra si allontanava verso l’orizzonte, i rifles­si delle case distribuite lungo la riviera che erano restituiti dallo specchio del mare come tremuli mormorii di luce, la villa reale da poco impiantata dai Borbone, la grande corte che racchiudeva il verde intenso di un giardino oggi impensabile, proprio di fronte al mare, la collina di Monte Echia e i lunghi pergolati di glicine e uva che oggi sopravvivono, e chissà per quanto poco ancora, solo in alcuni punti nella costiera amalfitana, tutto l’insieme, in­somma, concorreva a fissare una sorta di nodo irrinunciabile della memoria, un grumo di significato.
L’uditorio era come rapito dal ragionamento di Giuliano che portava quei ragazzi a rivivere emotivamente un’ epoca lontana e stati d’ani­mo profondamente radicati in qualche parte della loro memoria involontaria e incosciente. De Luca impersonava, con le sue parole ap­passionate, ai loro occhi, uno dei tanti viaggia­tori del sud, uno strano e improbabile Goethe moderno che aveva fatto un viaggio all’indie­tro nel tempo e, di questa sua irreale espe­rienza, offriva un report avvincente e veritie­ro."


GiovanBattista Lusieri, Napoli vista da Posillipo
(acquerello ora smembrato in due parti, quella sinistra è a Londra, quella destra è a New York)


Elementi della storia: il Cristo velato

Giuseppe Sammartino, il Cristo velato

di Giacomo Ricci


Il Cristo velato di Giuseppe Sammartino è uno degli elementi cardine del romanzo.  Si tratta di una vera e propria acrobazia scultorea. Così la definì Tommaso Piemontese, padre di Gino,  mio caro amico d'infanzia e di studi, quando ci condusse a vedere, per la prima volta, la Cappella Sansevero, in un ciclo di percorsi domenicali di studio  del Centro Antico di Napoli che aveva inventato per noi. E, dopo tanti anni, non posso che dargli completamente ragione: di una vera e propria acrobazia si tratta. L'idea di una complessa operazione di equilibrio artistico mi è sempre piaciuta.  Il Sammartino è riuscito a dare l'idea della trasparenza del velo, un materiale impalpabile che lascia intravvedere quello che copre, usando la pietra. Un'acrobazia prima mentale, di concezione, e poi artigianale, concreta operazione costruttiva, fabbrile. Ciò che rende grande le operazioni concrete degli uomini è proprio la concezione che ne è alla base. Per questa sua arditezza, il Cristo velato è uno degli elementi fondamentali intorno ai quali ruota il fascino della cappella, contribuendo non poco alla definizione del suo mistero. 
Come ha fatto l'artista a concepire un'opera del genere? Come ha pensato di poterci riuscire? Queste sono le vere domande che vengono in mente, una volta che si sia di fronte all'opera. Prima della pietà che pure ispira, visto che si tratta di una rappresentazione mortuaria, del corpo di un defunto, l'osservatore è attraversato dalla meraviglia, colpito profondamente, per l'appunto, dall'acrobazia mentale cui il Sammartino ha sottoposto il suo stesso pensiero, pretendendo di ricostruire, con un materiale del tutto innaturale a rendere l'idea, l'impressione della trasparenza. 
Ecco perchè, poi, si è diffusa la leggenda che il Sammartino avesse realizzato la statua (che già di per sé rappresenta un complesso traguardo artistico da raggiungere) e il principe, successivamente, avesse provveduto alla marmorizzazione alchemica di un vero velo, una volta che questo fosse stato adagiato sul corpo lapideo disteso.
E' proprio della mentalità illuministica, legata alla ragione e al suo modo di affrontare e risolvere i misteri del mondo e della vita,  esasperare, per contrasto,  l'arte dell'illusione, della meraviglia, del prodigio. Come dire: la mente è solo razionale, costruisce schemi, modelli e inventa leggi perché tutto il mondo, nel suo complesso, sia razionalmente conoscibile e spiegabile. Ma l'animo umano, continua l'illuminista,  è fluido, inesplicabile e imperscrutabile e costruisce mostri e meraviglie, mette in atto spettacoli di turbamento che alludono ad un mondo parallelo, totalmente inconoscibile dalla ragione e completamente irrazionale, fuori, cioè, dal modello razionale della mente.
Quel mondo è l'universo dell'inconscio che solo un secolo più tardi sarà portato alla luce dal genio di Freud. 
Il pensiero cartesiano si dovrebbe esprimere dunque così:
"Cogito ergo sum. In somnis video,  ergo vivo". 

La cappella Sansevero

La cappella Sansevero è il luogo dove inizia l'azione di Pietre di fuoco. Qui viene trovato un corpo, orrendamente mutilato.
E' don Arturo, custode della Cappella, a fare la macabra scoperta mentre è sul punto di illustrarne le bellezze a un gruppo di turiste straniere di mezz'età. 
Il panico s'impadronisce subito dello sparuto gruppetto e tutti scappano via a più non posso. La voce dell'orrendo delitto si sparge, come in un lampo, per tutta Napoli. 
Nella cappella più famosa della città s'è trovato un morto, nudo e decapitato.
La circostanza non fa che accrescere il fascino misterioso e, in qualche maniera anche un po' macabro, del posto, da sempre fissato, nell'immaginario popolare, come luogo nel quale il principe Raimondo di Sangro di Sansevero, faceva i suoi esperimenti, dava corpo alle sue mirabolanti invenzioni.
Di notte si sono uditi lamenti, rumori, sferragliare di catene, carri pesantissimi che si muovevano nel sottosuolo, stridori di ferri. Un'atmosfera surreale e, in qualche modo densa di paure irrazionali, che ha, da sempre, addensato inquietudini e preoccupazioni negli abitanti del quartiere. 
Il principe Raimondo di Sangro era un oscuro negromante o un intellettuale illuminista in vena di prendere per i fondelli il suo prossimo? Nel libro, nel tentativo di far luce sul delitto, il professor Giuliano De Luca, protagonista della vicenda,  tenta di rispondere anche a  questo interrogativo.  Per tutte le cose irrazionali c'è sempre, a saperla individuare, una risposta univoca e terrena, motivata e, soprattutto, razionale. Basta sapere applicare l'intelligenza. Questa la tesi del professore. 

la cappella Sansevero in un acquerello di Consalvo Carelli

venerdì 3 giugno 2011

pietre di fuoco ed epigrafonie



di Rossana Di Poce


Caro prof., dopo aver letto il tuo Pietre di Fuoco per la presentazione che ne faremo al Salotto, volevo segnalarti questo progetto del'Assessorato al Comune di Napoli ( Sonus Loci Progetto ). Io mi sono occupata della Napoli Greca, cercando di fare una puntata divulgativa...credo ci stia a cuore la medesima preoccupazione.Nella città dalla doppia nascita, e doppia nella sua natura mitologica, cercare l'Armonia degli Opposti è una grande lotta comune.A presto, (sarebbe bello fare una puntata sulla Napoli Sotterranea-o la Pietatella- che mi pare di capire sia una dele tue passioni...ne parliamo al Salotto, se ti va).
Grazie,
Rossana





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