pietre

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Pietre di Fuoco - noir napoletano di Giacomo Ricci - Neftasia editore 2011

giovedì 26 maggio 2011

In un mare di contraddizioni intriganti







Silvio Perrella in dialogo con Giacomo Ricci

Perrella: Come è consuetudine quando sono in questo posto, più che dire delle cose cerco di entrare in dialogo con l’autore. Cominciamo col dire che ti do del tu. Ci siamo appena conosciuti ma mi sembra più comodo.
Ricci: Certamente.
Perrella: Ti farò delle domande e  poi Belfiore concluderà. Cominciamo a studiarcelo, questo libro. A parte la dedica,  tu inizi con due citazioni. Una di Libero Bovio e una di Salvatore Di Giacomo che metti in una maniera come se fossero un’introduzione al tuo libro. La prima è brevissima. Dice Bovio: “I romanzi gialli più vorrebbero atterrirmi, più mi mettono di buon umore”. E qui entriamo nell’ambito del divertimento, come diceva anche Giulio Baffi. Scrivere un libro del genere significa divertirsi. Sperando che lo stesso divertimento lo provino anche i lettori. Il primo divertimento mi pare è quello di alludere a una letteratura che parla di Napoli di cui questi due autori sono rappresentanti. E mi pare che tu faccia scrivere a Di Giacomo l’introduzione al tuo libro.
Ricci: Di Giacomo parla del principe Sansevero quando, ricostruendo la storia del  palazzo Sansevero, ci riferisce di un suo misterioso crollo, nel corso di un restauro, e non se ne comprendono bene le ragioni. Dopo il crollo appaiono strani fenomeni che attraversano le stanze del palazzo, si odono rumori sinistri, si vedono fiamme notturne, luci misteriose. Come se il principe fosse tornato a compiere i suoi misteriosi esperimenti alchimistici. E questa è la stessa atmosfera che crea Rafele, il famigerato portiere di Questi Fantasmi. Rafele racconta dei fenomeni misteriosi che caratterizzano il Palazzo, la capa d’elefante, i fuochi, le lampetelle sul terrazzo, il guerriero che, trombetta in bocca, cammina sul cornicione del palazzo. Tutto questo avviene in quella via che oggi si chiama via De Sanctis, dov’è la cappella Sansevero. Lì c’era un passaggio aereo che collegava la cappella al Palazzo Sansevero. Nel crollo anche il passaggio rovinò e da allora non è mai più stato ripristinato. L’ala che è crollata è proprio quella dove erano le stanze nelle quali furono scoperti in flagrante adulterio e uccisi i due amanti Maria d’Avalos e Fabrizio Carafa dal marito di lei Gesualdo da Venosa.  Tutto il popolo ha vissuto questo crollo come fatto terribile e misterioso, come racconta Salvatore Di Giacomo. Posso fare un inciso?
Perrella: E ti possiamo mai dire di no?
Ricci: Alcune cose del libro io ve le devo raccontare. Prima Giulio alludeva all’espressione “Giacchettella a Mongelluzzo”. Il significato è presto detto. Mia nonna, e poi mia madre, quando vedevano che indossavo una giacchetta troppo stretta, strimin zita, ricorrevano a quest’espressione. Una prima interpretazione era che mongelluzzo fosse l’aucelluzzo di cui parla Carmela, la sorella del guardaporta in Questi Fantasmi. Giovanni Mongelluzzo è un attore di varietà, avanspettacolo, caffè chantant, che portava giacchette risicate, da cui l’espressione. Salvatore Di Giacomo insomma mi serve per introdurre l’atmosfera magica che ruota intorno al palazzo.
Perrella: Mi pare di più. Tu usi Salvatore Di Giacomo con un significato più ampio. Nel senso che ti piace intonare il tuo lavoro con le sue parole.
Ricci: Soprattutto con le parole di Libero Bovio. Questa tesi è quella che più mi diverte dei libri gialli. Il loro aspetto comico. O il comico involontario perché sono fatti tanto male da suscitare l’ilarità di chi legge. Oppure quando, con grande maestria, si unisce il comico al tragico e al terrore. Si ottiene una miscela veramente esplosiva che, spesso, è tipica del teatro napoletano. Proprio Questi Fantasmi rispetta questo clichè. In questa commedia non si capisce mai il limite tra il comico, il tragico, la paura e la disperazione. L’equivoco che genera di continuo l’irruzione del tragico nel comico e viceversa. L’irruzione del fantastico, dell’irrazionale, dell’inusitato nella nota della spesa di ogni giorno è ciò che mi piace di più. Quindi il mio obiettivo è quello di predisporre l’ambiente e il lettore al noir, al cadavere, all’omicidio efferato, ma con una nota comica che non deve abbandonare mai la scena.
Il libro giallo, insomma, c’è ed è costruito con le regole rigorose di un giallo,  quelle stabilite una vota per tutte da SS. Van Dine, per capirci. Non si può derogare da queste regole perché si corre il rischio che il lettore, sentendosi frodato, getti via il libro prima di giungere alla fine. Ma la letteratura di genere mi serve come buon pretesto per il divertimento. Così Salvatore Di Giacomo mi fornisce il destro a quest’operazione strutturale cui tendo. Di Di Giacomo amo la capacità di creare un’atmosfera distaccata, leggera, disincantata, a volte effimera, sfottitoria, tra il serio e il faceto con la quale descrive il Palazzo Sansevero.
Perrella: Ecco tu hai parlato di divertimento. La parola divertimento significa anche deviare da un percorso, andare da un’altra parte. Questo libro è un giallo ma ha un sottotitolo che allude ad altro. Uno dei tuoi divertimenti è dunque quello di infilare un saggio all’interno di un romanzo giallo, tant’è che al capitolo otto tu dici che devi divagare e devi tornare al tuo mestiere vero che è quello di saggista. Fai una digressione su Vico Lungo Gelso, il suo rapprto con la collina, accenni a Pedro de Toledo, ecc. Vorrei che tu ti fermassi un po’ su quest’aspetto. Il fatto che tu da architetto presti molta attenzione alla tpografia della città. Questa è una caratteristica tipica della letteratura su Napoli. Molti romanzi su Napoli hanno nel titolo quersta volontà topografica, nomi di strade come Montedidio, Via Gemito, una strada, insomma, e tra l’altro, ieri ne parlavamo alla presentazione del libro di Pasquale, ma anche titoli come Il ventre di Napoli di Matilde Serao prende lo spunto da un intervento urbanistico che muta il volto della città e che lei fa diventare un racconto.  Fermati un attimo su questo divertimento, di scrivere un giallo con  un saggio al suo interno.
Ricci: Il mio problema, in realtà, è stato l’opposto: come abbandonare il terreno che mi era consueto quello del saggio per una letteratura tendente al romanzo. Sono stato perseguitato a scrivere tanto per una vita, sforzandomi di farlo al meglio, senza che mai nessuno si sia letto una mia pagina per intero …
Perrella:  E non ti sei mai fatto delle domande, diciamo, sul perché …
Ricci: Certo, perché, evidentemente scrivevo una vera schifezza cose che non interessavano nessuno. Certo il problema era mio, ma forse anche del fatto che oggi nessuno legge, forse.
Voglio dire che, per una vita, sono stato professore, pedante, noioso, troppo analitico. Mentre,  invece, la scommessa che ho tentato adesso è quella di informare le persone in maniera divertente. La stessa serietà negli intenti e nelle prospettive culturali, per così dire, ma la forma leggera, divertente, apparentemente leggera, semplice in grado di arrivare più diretta alla significazione e alla comunicazione con tutti.
Ci sono episodi che mi hanno divertito molto anche in fase di costruzione, dove ridevo di buon gusto quando l’idea andava prendendo corpo a poco alla volta, come la scena dell’inseguimento di Maria d’Avalos  e la grande mappata di panni, scarpe, pezze, travolge i protagonisti che prendono questi oggetti per altrettanti fantasmi e ne sono terrorizzati.
C’è un personaggio straordinario del libro che è don Arturo che potete ritrovare pari pari nella realtà, il custode della chiesa di San Domenico Maggiore.
Tra l’altro c’è nel libro un’invenzione di cui vado fiero che è il Re.Po.Na.C.A., la Rete dei Portieri Napoletani del Centro Antico, una società onlus.
Perrella: Questo libro si ambienta nell’Università. La persona che viene trovata morta è un professore universitario…
Ricci: E’ un preside, un preside di Facoltà.
Perrella: ecco già inserisci la gerarchia dentro…
Ricci: E per forza. Se non si chiama in ballo la gerarchia, parlando dell’Università, si rischia di fare un discorso che non ha senso. L’Università, sotto questo profilo, è proprio come l’esercito.
Perrella: Vi leggo che cosa scrive nei ringraziamenti così capite con chi avete a che fare: “E’ del tutto ovvio che le persone di cui si parla e i personaggi sono immaginari”.
Ricci: Avete avuto notizia di un preside decapitato nella cappella Sansevero? E’ dunque evidente che si tratta di immaginazione.
Perrella: Questo da un punto di vista letterario. Tu scrivi: “L’università di cui qui si parla, nulla ha a che fare con la gagliarda istituzione napoletana. Questa, come è a tutti noto, non è mai stata attraversata da conflitti, idee e comportamenti che non fossero basati esclusivamente sul merito, il progresso della ricerca e la disinteressata attenzione alla crescita della cultura e la rigorosa preparazione delle giovani generazioni”. Qua non lo hai perso il filo …”
Ricci: No, qua non l’ho perduto. E quando uno si deve togliere una pietra dalla scarpa se la leva …
Perrella: In realtà quest’università di cui qui si parla è attraversata da molti morti, una carneficina …
Ricci: Non mi pare, non sono più di tre, quattro al massimo …
Perrella: L’uso dei computer  è molto connaturato al romanzo. Addirittura si scannerizzano delle opere d’arte. E si scannerizza anche l’esperimento del Sansevero, del corpo con il sangue pietrificato dentro e proprio quando si sta cercando di capire se è vero o non è vero, si perde il filo della narrazione perché succede qualcosa che impedisce la scoperta. Questo mi sembra un punto importante del racconto perché tu ti chiedi se il principe era semplicemente  uno che giocava o era uno che usava la ragione in un momento particolare come l’epoca dei lumi.
Ricci: La figura del principe di Sansevero è uno dei nodi dell’immaginario napoletano. E dicendo questo non si scopre nulla di nuovo. Ma interessante è il fatto che attorno alla sua figura sono state costruite, ad arte, tutta una serie di fantasie. Queste però si possono definire tali fino a un certo punto. Perché una fantasia quando è costruita, ripetura, propagandata più volte e quando alla fine si costruisce attorno ad essa una vera e propria aura, diventa vera e reale anche se si tratta di una falsità. Alla fine non ci ci interroga più sul suo indice di verità, ma la si vive come fatto compiuto. E il principe Sansevero è un negromante e la storia che si racconta su di lui è terribile e crudele perché le due macchine anatomiche, i due “cadaveri” che si trovano nella cappella Sansevero, sarebbero, secondo la vulgata, secondo le fantasie popolari, le conseguenze visibili di un processo di metallizzazione dei sistemi sanguigni di due esseri viventi reali, ottenuta mediante una sostanza inventata dal maledetto principe alchimista, in vena d’infernali sperimentazioni. Perché il processo e la sostanza iniettata, infatti, potesse avere effetto portando alla metallizzazione degli interi sistemi di vasi, era necessario che gli esseri su cui si sperimentava fossero vivi, che il sangue, cioè, circolasse. Perché altrimenti l’esperimento non avrebbe potuto aver luogo.
Le due macchine anatomiche, una maschile e una femminile, ancorchè piuttosto macabre, però, non smettono di apparirci come una sorta di gufi impagliati, quindi piuttosto comici che non terrificanti.
Questa è la vulgata. Pare che però si sia accertato, dalla presenza di una bolla di pagamento, che il principe avesse commissionato ad un medico palermitato, tal dottor Salerno, il compito di allestire le due macchine in maniera artificiale, fornendo egli stesso il materiale (questo sì prodotto del suo ingegno alchimistico) da usarsi al posto del sistema venoso-arterioso da imitare.  Fatto sta, che, comunque, il dubbio è sempre rimasto e su questo si gioca per aumentare il fascino macabro e un po’ morboso del luogo e attirare quanti più visitatori possibile. L’arte starebbe tutta, insomma, nella costruzione di quell’aura, di cui dicevo, dell’atmosfera di mistero e occulto con sapienza e dosinvoltura. Ma impedendo, soprattutto, qualsiasi analisi scientificamente valida dell’effettiva natura dei materiali delle macchine anatomiche. Ora tutta questa complessità nel libro è affrontata ma non c’è risposta. Non si può impunemente andare contro l’immaginario sedimentato. Sarebbe come dire che la liquefazione del sangue di San Gennaro è una truffa. E’ una parola!  E chi si potrebbe mai permettere, pur avendone le prove, di fare una tale affermazione?
 Come si può andare a giocare con mitemi così fortemente radicati nell’immaginario popolare? La cosa, però, interessante – io l’ho visto, qualcuno della mia età l’ha visto – è che ai piedi della macchina anatomica femminile c’era un feto che poi è stato trafugato. Questo furto ha un sapore blasfemo e in qualche modo inquietante e potrebbe aprire la nostra  fantasia verso interrogativi di cui è difficile dare risposte chiare e univoche, facendo intravvedere scenari poco rassicuranti e perturbanti.
Perrella: Questo può essere l’inizio di un altro romanzo
Ricci: Potrebbe essere. In qualche maniera insomma questo furto butta una luce un po’ sinistra su questa storia. Ma la mia tesi è che il principe Sansevero sia stato un intellettuale, a suo modo scomodo, per l’epoca che rappresentava, tipico esponente di quell’arte della meraviglia fiorita nella luce dell’Illuminismo, un intellettuale provocatore attento e beffardo, una avanguardia degli intellettuali dell’Ottocento che cercavano risposte alle miserie della realtà nella scienza, nella ragione e nelle ideologie di libertà. Essere un intellettuale razionale, uno scienziato, un ricercatore nell’epoca ancora immersa con i piedi oscurantisti da inquisizione  non è cosa da poco.
Perrella: La paura popolare è un mostro da dominare con l’intelletto e il ragionamento come aveva fatto il principe Raimondo. Ma quale negromante e mago. Il principe era stato soprattutto un intellettuale, uno scienziato, un geniale ricercatore dell’epoca dei lumi. Straordinaria l’epoca dei lumi, capace, per l’appunto, di illuminare. L’unico rimedio contro la paura era la cultura.
Verso la fine parli della Madonna di Montevergine. E’ molto bello quello che scrivi. Leggilo tu.
Ricci:  “La madonna di Montevergine, mamma Schiavona, è una delle madonne più belle e amate. Come per le altre si dice che  l’abbia dipinta San Luca in persona e che sia, per questo, il ritratto autentico della mamma di Gesù, la madonna odeghetria. Dell’antico ritratto è sopravvissuto solo la testa, nera e bellissima incastonata in una tavola grande. Ma è anche Madonna festosa, bella, pacchiana e raffinata, danzatrice e seducente, pia e casta ma anche un po’ zoccola. Per carità non credetemi un bestemmiatore. Non lo sono assolutamente, data anche la mia latente bigotteria. Voglio però qui riferire il pensiero di Giuliano che elabora le credenze popolari”. 

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